“Come non puoi?”. Chiese deluso il mio collega Arduini.
“Ho… ho da fare”. Risposi distrattamente togliendomi la divisa. Quello era il momento della giornata che più detestavo; negli spogliatoi si parlava solamente di calcio o di politica.
“Dai, prima di sera siamo a casa!”. L’insistenza di Arduini si fece irritante.
“E va bene, vengo anch’io”.
Mancavano ancora tre giorni a sabato e l’attesa divenne sempre più snervante. Presi in considerazione di rinunciare, ma ormai non avrebbe avuto senso. Quando arrivò il fatidico giorno decidemmo di trovarci al parcheggio della fabbrica alle ore 9.00, dopo di che raggiungendo il Ticino e armati di tanta pazienza, avremmo acceso il fuoco. Una grigliata fuori stagione : che idea del cazzo. Prima di uscire di casa salutai mamma come se fosse l’ultima volta. Lei sorrise alla mia sproporzionata dimostrazione d’affetto e mi augurò “buon divertimento”.
Nel gelo mattutino guidai fino all’incrocio che portava alla fabbrica, ma quando scattò il verde misi la freccia e svoltai a sinistra. Percorrendo il lungo viale ritornai giovane; nel cruscotto cercai la famosa cassetta che accompagnò molti viaggi : “Clear Hearths, Grey Flowers” delle Jack Off Jill. Non la trovai; chissà dov’era finita. Quella volta però, grazie al navigatore, giunsi fino a Semiana senza problemi.
I colori autunnali diedero un tocco di desolazione al paese; ogni strada era ricoperta dalle foglie gialle e rosse cadute dagli alberi. Per raggiungere la locanda bisognava percorrere una stretta via accanto alla piazza.
Provai molta agitazione a parcheggiare la macchina di fronte; con passo lento mi avvicinai alla porta, ma proprio nel momento in cui stavo per toccare la maniglia, mi bloccai. Come mi sarei presentato? Cosa le avrei detto? Arretrando, decisi di raccogliere qualche idea. Per ripararmi dal vento gelido chiusi i bottoni della mia giacca nera, ma non servì a niente. Infreddolito andai a sedermi sopra una panchina della piazza. Dalla tasca dei pantaloni presi il cellulare : nessuna chiamata senza risposta. Per evitare che qualcuno mi avrebbe chiamato lo spensi.
Basta; fui convinto di alzarmi e aprire quella maledetta porta, altrimenti il mio viaggio non sarebbe servito a niente. Raggiungendo l’ingresso inspirai profondamente. A pochi centimetri dal mio viso la porta si aprì :
“Bentornato…”. Non potevo credere a ciò che vidi; anche se erano passati tanti anni la sua bellezza rimase intatta.
“C-ciao Carol… scusami se piombo qui, ma…”.
“Ti ho visto dalla finestra di sopra e sono scesa”.
Le mie paure svanirono : sembrò davvero entusiasta di vedermi.
“Vieni…”. Disse chiudendo la porta alle spalle e scendendo i gradini.
“Andiamo a fare quattro passi, mamma è appena rientrata e non voglio che ti veda. Sai, lei è una donna un po’ all’antica”.
Affetto da mutismo accettai. Passeggiammo per tutto il paese, parlando come se ci fossimo visti il giorno prima. Quando giungemmo nelle campagne, osservammo in silenzio i campi immersi nella nebbia.
Nonostante facesse freddo, Carol indossava solamente un maglioncino nero sbottonato sul petto. Il lungo vestito a quadretti le scopriva le gambe dalle ginocchia in giù.
“Fantastico”. Pensai osservando la pettinatura : portava ancora le trecce come la prima volta che venni a Semiana. Ai piedi calzava delle ballerine nere ormai intrise di fango e terriccio.
“Sapevi che sarei venuto?”. Le chiesi appoggiandole una mano sulla spalla destra.
“Sì… me lo sentivo che un giorno saresti tornato. Non sai quanta gioia sto provando ora ad averti qui con me….”. Accarezzandole il braccio mi accorsi che era commossa.
“Carol… in tutti questi anni non ho fatto altro che pensare a te”. La nebbia intorno a noi aveva avvolto ormai ogni cosa.
“Anch’io… non mi sembra vero che tu sia qui”. Rifugiandosi nel mio petto mi strinse forte.
“Basta ora”. Le dissi sollevandole il mento. “Sono venuto per darti questo”. Quanto mi mancavano quelle morbide labbra bagnate.
“Dai Cicè, tiriamoci su un po’ il morale. E’ quasi mezzogiorno, andiamo a mangiare qualcosa”.
“E dove?”.
“All’acquamatta. Ti ricordi?”. Durante le nostre giornate insieme gustammo tante specialità in quel ristorante.
“Si…”. La mia proposta le fece tornare un lieve sorriso.
“Forza, andiamo”.
“Aspetta!” Esclamò afferrando tra le mani la parte bassa del vestito a quadretti. “Non posso venire così. Lascia che torni a casa a cambiarmi”.
“Ma dai! Sei stupenda così”. Sapevo che anche il più grande degli elogi non sarebbe servito a farle cambiare idea.
Nei pressi della locanda Carol strinse il mio braccio : “Un attimo. Prendi la macchina e portala sotto casa mia, io passerò da dietro”. Anche se non li avevo mai conosciuti di persona, non dovevo stare molto simpatico ai suoi genitori.
La grande casa bianca a due piani era rimasta esattamente come allora; Carol apparve dalla porta d’ingresso dopo dieci minuti esatti. Rapidamente aprì la portiera e si sedette sul sedile davanti. Il vestito nero era decisamente elegante : presentava un colletto bianco dalle tenere ricamature e le accentuava i deliziosi fianchi.
Rivestì le sue generose gambe con delle calze di nylon nero fumo, mentre ai piedi portava delle scarpe nere a tacco alto. “Questo è il ricordo di mio padre”. Disse accarezzando la medaglietta in oro che portava al collo. “Vedi le lettere? P.P. : Piero Padovani”.
“T-tuo padre è…”.
“Sì, è successo l’anno scorso.”
“E… come?”. Quello che avevo appena sentito mi gelò il sangue.
“Un tumore ai polmoni”.
“Io… mi spiace”. Le accarezzai la mano delicatamente.
“Ora è passato, ciò che conta è che il suo ricordo sia ancora vivo”.
Durante il tragitto verso il ristorante avrei tanto voluto tirarle su un po’ il morale, ma non sono mai stato abile in questo genere di cose.
Vidi i suoi occhi lucidi contemplare il volo degli uccelli appena sopra una risaia. “Guarda”. Mi disse puntando l’indice. “Anche loro stanno volando liberi come noi, nessuno li può fermare”.
“Tu ti senti davvero libera?”.
“Quando sto con te sì. Ma che fai piangi?”.
“Non… non ti ho chiesto ancora scusa Cicetta”.
“Non importa. Non ti chiedo di giustificarti, quello che è stato è stato. L’importante è che ora siamo di nuovo insieme”.
“Ho… ho da fare”. Risposi distrattamente togliendomi la divisa. Quello era il momento della giornata che più detestavo; negli spogliatoi si parlava solamente di calcio o di politica.
“Dai, prima di sera siamo a casa!”. L’insistenza di Arduini si fece irritante.
“E va bene, vengo anch’io”.
Mancavano ancora tre giorni a sabato e l’attesa divenne sempre più snervante. Presi in considerazione di rinunciare, ma ormai non avrebbe avuto senso. Quando arrivò il fatidico giorno decidemmo di trovarci al parcheggio della fabbrica alle ore 9.00, dopo di che raggiungendo il Ticino e armati di tanta pazienza, avremmo acceso il fuoco. Una grigliata fuori stagione : che idea del cazzo. Prima di uscire di casa salutai mamma come se fosse l’ultima volta. Lei sorrise alla mia sproporzionata dimostrazione d’affetto e mi augurò “buon divertimento”.
Nel gelo mattutino guidai fino all’incrocio che portava alla fabbrica, ma quando scattò il verde misi la freccia e svoltai a sinistra. Percorrendo il lungo viale ritornai giovane; nel cruscotto cercai la famosa cassetta che accompagnò molti viaggi : “Clear Hearths, Grey Flowers” delle Jack Off Jill. Non la trovai; chissà dov’era finita. Quella volta però, grazie al navigatore, giunsi fino a Semiana senza problemi.
I colori autunnali diedero un tocco di desolazione al paese; ogni strada era ricoperta dalle foglie gialle e rosse cadute dagli alberi. Per raggiungere la locanda bisognava percorrere una stretta via accanto alla piazza.
Provai molta agitazione a parcheggiare la macchina di fronte; con passo lento mi avvicinai alla porta, ma proprio nel momento in cui stavo per toccare la maniglia, mi bloccai. Come mi sarei presentato? Cosa le avrei detto? Arretrando, decisi di raccogliere qualche idea. Per ripararmi dal vento gelido chiusi i bottoni della mia giacca nera, ma non servì a niente. Infreddolito andai a sedermi sopra una panchina della piazza. Dalla tasca dei pantaloni presi il cellulare : nessuna chiamata senza risposta. Per evitare che qualcuno mi avrebbe chiamato lo spensi.
Basta; fui convinto di alzarmi e aprire quella maledetta porta, altrimenti il mio viaggio non sarebbe servito a niente. Raggiungendo l’ingresso inspirai profondamente. A pochi centimetri dal mio viso la porta si aprì :
“Bentornato…”. Non potevo credere a ciò che vidi; anche se erano passati tanti anni la sua bellezza rimase intatta.
“C-ciao Carol… scusami se piombo qui, ma…”.
“Ti ho visto dalla finestra di sopra e sono scesa”.
Le mie paure svanirono : sembrò davvero entusiasta di vedermi.
“Vieni…”. Disse chiudendo la porta alle spalle e scendendo i gradini.
“Andiamo a fare quattro passi, mamma è appena rientrata e non voglio che ti veda. Sai, lei è una donna un po’ all’antica”.
Affetto da mutismo accettai. Passeggiammo per tutto il paese, parlando come se ci fossimo visti il giorno prima. Quando giungemmo nelle campagne, osservammo in silenzio i campi immersi nella nebbia.
Nonostante facesse freddo, Carol indossava solamente un maglioncino nero sbottonato sul petto. Il lungo vestito a quadretti le scopriva le gambe dalle ginocchia in giù.
“Fantastico”. Pensai osservando la pettinatura : portava ancora le trecce come la prima volta che venni a Semiana. Ai piedi calzava delle ballerine nere ormai intrise di fango e terriccio.
“Sapevi che sarei venuto?”. Le chiesi appoggiandole una mano sulla spalla destra.
“Sì… me lo sentivo che un giorno saresti tornato. Non sai quanta gioia sto provando ora ad averti qui con me….”. Accarezzandole il braccio mi accorsi che era commossa.
“Carol… in tutti questi anni non ho fatto altro che pensare a te”. La nebbia intorno a noi aveva avvolto ormai ogni cosa.
“Anch’io… non mi sembra vero che tu sia qui”. Rifugiandosi nel mio petto mi strinse forte.
“Basta ora”. Le dissi sollevandole il mento. “Sono venuto per darti questo”. Quanto mi mancavano quelle morbide labbra bagnate.
“Dai Cicè, tiriamoci su un po’ il morale. E’ quasi mezzogiorno, andiamo a mangiare qualcosa”.
“E dove?”.
“All’acquamatta. Ti ricordi?”. Durante le nostre giornate insieme gustammo tante specialità in quel ristorante.
“Si…”. La mia proposta le fece tornare un lieve sorriso.
“Forza, andiamo”.
“Aspetta!” Esclamò afferrando tra le mani la parte bassa del vestito a quadretti. “Non posso venire così. Lascia che torni a casa a cambiarmi”.
“Ma dai! Sei stupenda così”. Sapevo che anche il più grande degli elogi non sarebbe servito a farle cambiare idea.
Nei pressi della locanda Carol strinse il mio braccio : “Un attimo. Prendi la macchina e portala sotto casa mia, io passerò da dietro”. Anche se non li avevo mai conosciuti di persona, non dovevo stare molto simpatico ai suoi genitori.
La grande casa bianca a due piani era rimasta esattamente come allora; Carol apparve dalla porta d’ingresso dopo dieci minuti esatti. Rapidamente aprì la portiera e si sedette sul sedile davanti. Il vestito nero era decisamente elegante : presentava un colletto bianco dalle tenere ricamature e le accentuava i deliziosi fianchi.
Rivestì le sue generose gambe con delle calze di nylon nero fumo, mentre ai piedi portava delle scarpe nere a tacco alto. “Questo è il ricordo di mio padre”. Disse accarezzando la medaglietta in oro che portava al collo. “Vedi le lettere? P.P. : Piero Padovani”.
“T-tuo padre è…”.
“Sì, è successo l’anno scorso.”
“E… come?”. Quello che avevo appena sentito mi gelò il sangue.
“Un tumore ai polmoni”.
“Io… mi spiace”. Le accarezzai la mano delicatamente.
“Ora è passato, ciò che conta è che il suo ricordo sia ancora vivo”.
Durante il tragitto verso il ristorante avrei tanto voluto tirarle su un po’ il morale, ma non sono mai stato abile in questo genere di cose.
Vidi i suoi occhi lucidi contemplare il volo degli uccelli appena sopra una risaia. “Guarda”. Mi disse puntando l’indice. “Anche loro stanno volando liberi come noi, nessuno li può fermare”.
“Tu ti senti davvero libera?”.
“Quando sto con te sì. Ma che fai piangi?”.
“Non… non ti ho chiesto ancora scusa Cicetta”.
“Non importa. Non ti chiedo di giustificarti, quello che è stato è stato. L’importante è che ora siamo di nuovo insieme”.