Dedica
"Questo racconto è dedicato a chi ha amato senza riserve, a chi ha vissuto nel dolore e nella speranza, a chi, pur nel buio, ha trovato la forza di andare avanti. A te,  che seppure in silenzio sei sempre accanto a me,

"A Pasquale"

Hai tolto la tua mano dalla mia,
ma il tuo amore è lì nel mio cuore.
Sei ancora qui,
in ogni silenzio che parla di noi,

in ogni respiro che sa di ricordo.
Cammini accanto a me,
invisibile e presente...
come una carezza che conosce la strada.

Porto con me il tuo sorriso,
la tua forza,
e quell’amore che nessun tempo
potrà spegnere.

E in tutti i giorni che verranno
sarai sempre in me,
anche quando sarò lontana.
Dammi la forza

di proseguire il mio cammino da sola.
Proteggimi se barcollo,
sostienimi fino all'ultimo passo.
Insieme abbiamo camminato

e da sola giungerò in cima.
Un giorno, lì, tra il silenzio e la luce,
ci ritroveremo:
questo non è un addio,
è solo un arrivederci.
Ciao, amore mio.

Introduzione

Capitolo 1:  Un Amore senza Tempo

C’era una volta un amore che sembrava avere il tempo dalla sua parte. Non chiedeva troppo, non gridava mai. Era fatto di piccoli gesti, di parole sussurrate la sera, quando tutto taceva tranne il cuore. Poi un giorno, senza preavviso, arrivò il rumore. Un sibilo sottile, appena percettibile, che si infilò nelle pieghe della nostra normalità. Era l’eco di qualcosa che stava cambiando, anche se ancora non lo sapevamo.

Quello che segue non è un romanzo, né una cronaca. È il tentativo di mettere ordine tra i frammenti di una vita divisa in due: prima e dopo di te. È il racconto di un amore che ha saputo affrontare la bellezza e la crudeltà dell'esistenza, fino all'ultimo respiro.
Se potessi riavvolgere la pellicola della mia vita e tagliarne alcune parti, lo farei. Se potessi strappare un foglio scritto male e riscrivere una nuova storia, lo farei. Se la vita si potesse trascrivere su due fogli... scriverei prima la brutta copia e poi la riporterei in bella: senza strafalcioni, senza errori, senza sbavature. Ma tutto ciò non è possibile. La vita è testarda e non ama essere contraddetta. Destino, fatalità o chissà cos'altro, lei fa sempre e solo ciò che vuole e va dove vuole. E a noi non resta che conservare, impressi nella mente, brevi scorci da raccontare.
Stare accanto a un malato di cancro è durissimo. Non puoi fare nulla. Le armi che hai sono troppo deboli. I familiari devono assistere al lento – o veloce – declino di un corpo deprivato della propria volontà e divorato dal male. Il peggio è che tutto sembra inutile. È una lotta contro il tempo, ma non si sa quanto tempo resti. Un mese? Due? Sempre troppo pochi. Si aspetta solo la fine, il compimento di quel macabro progetto. Nessuna descrizione può rendere l’angoscia di quei terribili momenti.

Non sapevo

Non sapevo di dover scrivere di te
non da vivo, ma da morto.
Non immaginavo di dover parlare in tua assenza,
sebbene tu sia ancora presente in me.
Non sapevo di non poterti più toccare e di temere di dimenticare i tuoi lineamenti, il tuo odore, il tuo te.
Non so dove sei.
Non so se cammini a piedi nudi sull'erba bagnata di rugiada
o svolazzi come un uccello nei cieli azzurri.
Non so nemmeno se hai trovato finalmente il coraggio di cantare.
Ricordo che ti piaceva, ma eri troppo timido.
Non so se hai imparato a suonare, ma se sai farlo, suonami una nenia, in modo che io possa ascoltarti per addormentarmi fra le braccia delle tue note.

Tu che eri una presenza

Era cominciato quasi per caso, in un pomeriggio qualsiasi, intriso di malinconia, senza pensarci troppo, iniziai a scrivere. Scrivevo a qualcuno che non aveva volto, ma che sapeva ascoltare. Una voce accogliente, come un vecchio diario ritrovato dopo anni.

Non cercavo risposte: volevo solo parlare. Parlare per non esplodere, per alleggerire il cuore da tutto il dolore che avevo dentro. Parlare di lui, del vuoto che aveva lasciato, della fatica quotidiana di andare avanti.

E fu così che iniziò questo racconto, nato da frammenti di vita e di assenza, cucito giorno dopo giorno, parola dopo parola, come un filo sottile che cerca di ricucire una ferita troppo profonda.

Per la prima volta trovai all'ascolto una voce amica: me stessa, che mi accoglieva con grande affetto. Aveva fra le mani un quaderno con fogli bianchi e una penna. Era una voce senza giudizi, né pregiudizi. Così decisi di scrivere la storia di una parentesi buia della mia vita. L'ho voluta scrivere per tutte quelle persone che devono soffocare e reprimere nel silenzio la loro rabbia. L'ho scritta per dare una voce al dolore. L'ho scritta perché chi ha vissuto e vive la mia stessa tragedia, possa un giorno urlare insieme a me.

Iniziai ad avere il coraggio di definirmi vedova. Lo scrissi quasi sottovoce, come se ammetterlo ad alta voce potesse far male più che tacerlo. Ma, con mio stupore, trovai comprensione. Parlando col mio diario, mi sentivo ascoltata  Non c'erano silenzi impacciati, né frasi preconfezionate per colmare l’imbarazzo. Nessuno sguardo di circostanza, nessuna commiserazione. Solo uno spazio vuoto in cui il mio dolore poteva espandersi, respirare, essere accolto.

Avevo sopportato a lungo l'indifferenza travestita da pietà, i consigli non richiesti, i giudizi mascherati da premure.

Fu così che decisi di raccontare. Di prendere quella parentesi buia della mia vita e farne una storia. L'ho scritta per chi, come me, ha dovuto soffocare le grida nella gola. Per chi si è sentito abbandonato, svuotato, impotente. L'ho scritta per dare voce al dolore taciuto, quello che non ha lacrime visibili ma che scavano dentro...profondamente, giorno dopo giorno.
L’ho scritta per chi ha vissuto – o vive – la stessa tragedia.
L’ho scritta per chi, come me, ha dovuto reprimere lacrime e urla. Per chi è stato costretto a soffrire in silenzio, a sentirsi solo, mentre il mondo andava avanti. Questa storia è la mia voce, ma vuole essere anche la vostra. Perché chi soffre, leggendomi, possa finalmente trovare le parole per urlare insieme a me.

.L’ho scritta per chi ha vissuto – o vive – la stessa tragedia. Questa storia è la mia voce, ma vuole essere anche la vostra. Perché chi soffre, leggendomi, possa finalmente trovare le parole per urlare insieme a me.

Con mani tremanti

Stanotte ho chiuso gli occhi
e il dolore, stanco,
si è seduto accanto a me:

non è svanito,
ma ha imparato a respirare più piano.
Mi aspetta un sentiero nuovo,

saranno passi nuovi a guidarmi.
Ho paura,
ma porto con me ogni battito del cuore,

ogni lacrima già versata.
Il dolore ancora pesa...
ma il tempo, paziente, lo smusserà.

Con mani tremanti,
ma con l’anima vigile,
ricostruirò il mio spazio nel mondo.

Non mi spezzo,
mi trasformo.
Devo imparare un nuovo respiro,

un passo diverso sulla terra ferita.
Non sarà facile,
ma dentro di me c’è una fiamma che non

si spegne.
Mi arrendo alla vita,
non al dolore.

Costruirò il mio domani,
anche con mani tremanti;
perché in fondo,
io sono già la mia speranza.

Capitolo 2 - L'Ombra della Malattia

Fu un giorno come tanti. Nessun segnale chiaro, nessun presagio evidente. Solo piccoli cambiamenti, come ombre che si allungano quando il sole cala. Tu cominciasti a dimenticare le cose, a essere più stanco del solito, a cercare le parole come se fossero oggetti smarriti. Io cercavo spiegazioni semplici: lo stress, l’età, il clima primaverile più caldo. Non volevo pensare che potesse essere qualcosa di più.
Era da un po' che eri strano e stanco. Avevi patologie cardiache ed eri in cura per questo. Nulla lasciava presagire che si trattasse di qualcosa di molto più grave. Era un po' di tempo che eri smemoratello e così andammo dal neurologo che accennò ad una demenza lieve. Ma la verità la scoprimmo con la scintigrafia e gli ulteriori esami.
Scoprimmo che si trattava di una neoplasia polmonare che aveva già prodotto metastasi in ogni parte del corpo.
Dopo molte indagini si presentò lui, in tutta la dua bruttezza, il mostro: un ospite sgradito che entra senza bussare. Si impossessa del corpo prescelto e ne fa ciò che vuole. Non si ha più alcun potere. Penetra in silenzio, si acquatta nell’ombra e si prepara all’attacco. Sceglie un organo, si lima i denti e comincia a morderlo. Si moltiplica da solo, lancia schizzi che attecchiscono altrove, generando piccoli mostriciattoli che a loro volta si riproducono, divorando tutto. Finché del corpo ospitante non resta che un involucro svuotato: una buccia raggrinzita, senza polpa. Quando scoprimmo il drammatico male, cominciò il nostro calvario. Un po' per volta, giorno dopo giorno, sprofondavi nell'abisso. Ti calavi pian piano nel pozzo dell'oblio: un posto senza ritorno, dove le tenebre rubano la memoria e divorano i corpi. Io ti guardavo svanire a piccoli passi, come un’ombra.

Come la malattia ha cambiato la vita quotidiana e le dinamiche familiari.

Capitolo 3: Tra Dolore e Speranza -
Il calvario

Stare accanto a un malato di cancro è durissimo. Non puoi fare nulla. Le armi che hai sono troppo deboli. I familiari devono assistere al lento – o veloce – declino di un corpo deprivato della propria volontà e divorato dal male. Il peggio è che tutto sembra inutile. È una lotta contro il tempo, ma non si sa quanto tempo resti. Un mese? Due? Sempre troppo pochi. Chi vive accanto a un malato terminale si sente sospeso in un tempo saturo di dolore, rabbia, paura. Si aspetta solo la fine, il compimento di quel macabro progetto. Nessuna descrizione può rendere l’angoscia di quei giorni.

Portarti a fare la radioterapia era diventato un supplizio. Camminavi a stento e ogni passo era una fatica. Quando rientravamo eri stordito, con lo sguardo perso e gli occhi leggermente strabici. Sembravi un bambino confuso, disorientato, in balia di qualcosa più grande di te.

Uno degli effetti più crudeli della terapia fu il singhiozzo. Una notte intera a singhiozzare senza tregua, come se il tuo corpo non sapesse più come stare fermo, come trovare pace. Io ti stavo accanto, travolta dalla stanchezza, ma incapace di chiudere occhio. Non c'era sonno che potesse vincere quel tormento.

Ogni tre o quattro ore volevi andare in bagno. Anche se avevamo messo il pannolone, tu insistevi: volevi alzarti, conservare un briciolo di dignità. Ti aiutavo ogni volta, con la schiena a pezzi e le gambe molli per la stanchezza. Ma non ti lasciavo solo. Non volevo. Non potevo. E così passavano le notti, lunghe come inverni, senza riposo, senza tregua.

Come la malattia ha cambiato la vita quotidiana e le dinamiche familiari.

Eri ormai costretto a letto, ma non ti chiedevi nemmeno il perché. Ti limitavi ad alzarti per andare in bagno, sorreggendoti a fatica su gambe sempre più deboli. Barcollavi, ed io, temendo che potessi cadere, ti seguivo passo dopo passo, sorreggendoti come fa una madre con il suo bambino. Eri indifeso, fragilissimo, consumato dalla sofferenza. Somigliavi sempre più a un moccolo di candela, ormai piccolo, tremolante, prossimo a spegnersi.
Ogni giorno era più difficile del precedente. I tuoi occhi si facevano sempre più opachi, e il mondo sembrava allontanarsi da te, un centimetro alla volta. In casa il tempo aveva smesso di scorrere in modo normale: c’era solo l’attesa, solo la stanchezza. Il tuo respiro era affannoso, intermittente. Le parole diventavano suoni indistinti. Ti accarezzavo la fronte, come si fa con i bambini che hanno la febbre, e tu chiudevi gli occhi, esausto. In quei momenti il silenzio urlava più forte di qualunque lamento.
Ma io ero lì. A vegliarti. A proteggere quel poco che restava del nostro mondo.
Anche se non sapevo per quanto ancora.

Ogni giorno era una prova. Il tempo non scorreva più come prima: si dilatava nelle attese, si faceva pesante nelle notti insonni, si accorciava nei rari momenti di tregua. I corridoi dell'ospedale erano diventati il nostro mondo parallelo. I medici parlavano con voce pacata, ma i loro occhi dicevano più di quanto le parole potessero. Ogni esame era una sentenza sospesa.
Spesso mi viene in mente quando mi guardavi con gli occhi buoni e quella luce chiara che ne esaltava lo sguardo. Il tuo volto scavato, le tue parole incomprensibili e tu in quel letto immobile e quasi privo di vita. Un corpo quasi senza battito. Il tuo volto scavato, le parole spezzate che uscivano a fatica. Lì, in quel letto che non era più un rifugio ma una prigione, il tuo corpo immobile, privo di vita. Uno spazio vuoto che non riesco a riempire.
Non potrò mai dimenticarlo. Quel momento ha lasciato un segno profondo, indelebile. A volte basta un pensiero lieve per cadere di nuovo in quel dolore che sembra non trovare pace: un pozzo senza fondo dal quale sto provando a risalire, anche solo per respirare meglio
Ricordo i tuoi occhi smarriti, lo sforzo nel comprendere, la paura che ti si leggeva addosso. Io cercavo di farti coraggio, ma dentro ero un fiume in piena. Non sapevo più se dovevo proteggerti o lasciarti andare. Ogni tuo respiro era un patto con la vita, ogni tuo silenzio un passo in più verso l’ignoto.

I gesti quotidiani — lavarti il viso, aiutarti a vestirti, prepararti qualcosa che riuscissi a mangiare — erano diventati rituali sacri, come preghiere mute che ripetevo per non crollare.
Di notte era un vero tormento. Ogni tre o quattro ore volevi andare in bagno. Nonostante avessimo messo il pannolone, tu volevi andare in bagno. Poi col tempo
non hai avuto più la forza di alzarti. Di notte ripeti frasi sconnesse. Ti lamenti per i dolori. Sono già tre mesi che non dormo. Mi svegli in continuazione. A volte ti ho detestato. Quando mi costringevi ad alzarmi, ti ho odiato. Ma poi bastava uno sguardo, un ricordo nei tuoi occhi, e tornavo a credere nelle favole.
Speravo perfino in una tua guarigione.

Il tempo non scorreva più come prima: si dilatava nelle attese, si faceva pesante nelle notti insonni, si accorciava nei rari momenti di tregua. I corridoi dell'ospedale erano diventati il nostro mondo parallelo. I medici parlavano con voce pacata, ma i loro occhi dicevano più di quanto le parole potessero. Ogni esame era una sentenza sospesa.

Ricordo i tuoi occhi smarriti, lo sforzo nel comprendere, la paura che ti si leggeva addosso. Io cercavo di farti coraggio, ma dentro ero un fiume in piena. Non sapevo più se dovevo proteggerti o lasciarti andare. Ogni tuo respiro era un patto con la vita, ogni tuo silenzio un passo in più verso l’ignoto.

I gesti quotidiani — lavarti il viso, aiutarti a vestirti, prepararti qualcosa da mangiare, erano diventati rituali sacri, come preghiere mute.
Stanotte ero stremata. Quando hai cominciato a lamentarti, ti ho urlato contro tutta la mia rabbia, tutte le notti senza sonno, tutta la mia frustrazione. È stato uno sfogo terribile. Ma chi può pretendere che un essere umano sopporti tutto questo? -
Nella nostra cultura, in un substrato popolare fatto di miseria e ignoranza, si pretende ancora troppo dalle donne. Si pretende stoica sottomissione, silenzio, forza. Vorrei scappare, ma non posso. Devo restare. Devo affrontare il mostro fino alla fine. Quel corpo che cerchi disperatamente di trascinare è ormai solo un involucro stropicciato e svuotato...ma io non ti abbandono.

È un cammino doloroso, l’ultimo che percorriamo insieme. Un viaggio che non avrei mai voluto intraprendere, ma che ora devo affrontare. Eppure, non è un viaggio che si può condividere fino in fondo. Io ti accompagnerò finché potrò, poi dovrai proseguire da solo. Ti lascerò la mano e tornerò indietro, senza di te. Da questo viaggio non porterò con me souvenir, né foto, né filmati. Non rideremo ricordando aneddoti divertenti. Al mio ritorno, disfacendo le valigie, troverò solo ricordi pregni di dolore: tracce di un viaggio senza ritorno. Si parte in due, ma non si sa chi volerà via per primo.

Mi prenderò cura di me

Mi prenderò cura di me
come si fa con un fiore fragile
che ha resistito al vento.

Mi parlerò piano,
con parole che curano
invece di ferire.

Mi darò tempo,
spazio per respirare,
pace per sentirmi.

Non cercherò più chi non vede,
non griderò per essere amata.
Sarò io a bastarmi un po’.

E in ogni gesto semplice
– una carezza, un passo –
ritroverò me stessa.

Porterò con me i miei giorni più belli,
li conserverò come fiori essiccati
tra le pagine di un libro amato.

Saranno luce nei momenti bui,
ricordi che sanno ancora di sorrisi,
voci che il tempo non spegne.

Li terrò nel cuore
non per restare ferma,
ma per sapere da dove vengo,
quando vado avanti.

E mentre cammino,
quei giorni mi parleranno piano,
dicendomi:
“Non sei sola. Ci siamo anche noi.”

Capitolo 4: La Fine del Viaggio

Io ero lì, accanto a te, come un’ombra attenta. Ti sollevavo con mille precauzioni, ti accompagnavo al bagno, ti asciugavo il volto quando la fatica ti faceva sudare come dopo una corsa. La mia schiena cedeva a volte, ma il cuore no.

Poi arrivò il singhiozzo, quella notte ininterrotta dopo la prima seduta di radioterapia. Un singhiozzo ostinato, violento, come un’eco che risuonava tra le pareti della stanza e nel mio petto. Tu non capivi, io non sapevo come fermarlo. Ti guardavo singhiozzare e mi sembrava un pianto che non riusciva a uscire dagli occhi. Ero sfinita, eppure non mi addormentavo. Non potevo.

Avevamo provato tutto: i farmaci, i massaggi, le preghiere silenziose. E alla fine fu deciso di sospendere le sedute. Non c’era più margine, né per curare, né per sperare. Solo un’attesa muta e disperata. Solo io e te. Sempre più fragili.

Poi tutto cambiò. Il tempo si fermò, e cominciò a misurarsi in flebo, farmaci, giorni di attesa.

Alla fine venne il silenzio. Il mostro aveva vinto.
Prima il precoma, poi il coma. La tua mano non rispondeva più alla mia. Il tuo corpo, un tempo pieno di nervi e volontà, rimase immobile. E poi... smise di respirare. Così semplice, così irreversibile.

Rimasi lì a guardarti, senza più sapere che ora fosse. Il tempo non serviva più. Avevo solo il tuo volto scavato negli occhi e il cuore pieno di un dolore che ancora oggi non riesco a spiegare.
Poi mi vieni in mente tu, quando mi guardavi con gli occhi buoni e quella luce chiara che ne esaltava lo sguardo.
Poi, come un'ombra improvvisa su un giorno sereno, mi viene in mente un'altra immagine, mi afferra il cuore e lo stringe. Il tuo volto scavato, le parole spezzate che uscivano a fatica. Lì, in quel letto che non era più un rifugio ma una prigione, il tuo corpo immobile, privo di vita. Uno spazio vuoto che non riesco a riempire.

Non potrò mai dimenticarlo. Quel momento ha lasciato un segno profondo, indelebile. Sono ancora scioccata, ancora traumatizzata. A volte basta un pensiero lieve per cadere di nuovo in quel dolore che sembra non avere fondo. Ma è da lì che sto provando a risalire, anche solo per respirare meglio.

È un cammino doloroso, l’ultimo che percorriamo insieme. Un viaggio che non avrei mai voluto intraprendere, ma che ora devo affrontare. Eppure, non è un viaggio che si può condividere fino in fondo. Io ti accompagnerò finché potrò, poi dovrai proseguire da solo. Ti lascerò la mano e tornerò indietro, senza di te. Da questo viaggio non porterò con me souvenir, né foto, né filmati. Non rideremo ricordando aneddoti divertenti. Al mio ritorno, disfacendo le valigie, troverò solo ricordi pregni di dolore: tracce di un viaggio senza ritorno. Si parte in due, ma non si sa chi volerà via per primo.

Quando venne quella lunghissima notte. Mi svegliai con un mal di testa terribile, e il tuo lamento mi perforò i timpani, come un urlo proveniente da un luogo lontano.
All'alba entrasti in coma. E poi, lentamente, ti spegnesti. Il tuo volto si distese in un'espressione serena, come se avessi finalmente trovato pace. Il tuo corpo smise di urlare. I tuoi occhi si chiusero alla vita terrena… e forse, in quel momento, cominciasti a volare.

Ormai angelo, come fan gli uccelli, spiccasti il volo verso il tuo nido fra le nuvole.
Come una bambina, lasciai che il mio palloncino colorato mi scivolasse dalle mani. E quando volasti via... ti seguii con lo sguardo finché diventasti solo un puntino nel cielo. Col tempo, stai occupando uno spazio immenso nel mio cuore. Ora che libri in me, ci siamo solo noi due: io e te.

L’ultima notte

Sapevo che stavi andando via.
Ero spaventata,
ma non ti ho abbandonato.
Ho voluto vivere con te
gli ultimi istanti.

Quella nota,
una sola, sempre uguale,
come un filo teso tra la terra e il cielo.
Non era un lamento.
Era un canto che il corpo non sapeva di cantare,
un addio che non trovava voce.

Io ero lì.
Con occhi stanchi, mani svuotate,
ma il cuore ancora acceso.
E anche se non potevo salvarti,
ti ho accompagnato.

Ora quella nota non fa più rumore,
ma vive in me
come un’eco di ciò che ho attraversato,
e di tutto ciò che ho avuto la forza
di sopportare.
Io.

Capitolo 5
L’elaborazione del dolore

In casa c'era un silenzio assordante che mi si appiccicava addosso. Il letto, il tuo cuscino, le ciabatte ancora lì. Ogni angolo parlava di te. Ogni oggetto, ogni rumore, anche il respiro del tempo sembrava portare il tuo nome.

Nei giorni successivi, tutto sembrava irreale. La vita fuori continuava, indifferente, e dentro di me si era aperta una crepa profonda. Mi muovevo come in una bolla, sospesa tra ricordi troppo vivi e una realtà che faceva male guardare. La casa era diventata troppo grande, troppo vuota, troppo silenziosa. Senza il rumore dei tuoi passi, la tua voce, i tuoi gesti abituali, sembrava una scatola dimenticata da Dio.

E poi il dolore, quello vero, quello che ti azzanna quando nessuno ti guarda. Quel dolore che non fa rumore, ma ti lacera dentro.

A volte, nel cuore della notte, mi sorprendo a parlarti come se fossi ancora qui. Sussurro il tuo nome nel buio e mi illudo che tu possa sentirmi. Altre volte ti scrivo, come sto facendo ora. Scrivere è diventato il mio modo di tenerti vicino, di non lasciarti andare del tutto. Come se, affidando le parole alla carta, potessi ancorarti ancora un po’ a questa terra.

Non so dove sei adesso, non so se davvero esiste un luogo in cui le anime riposano o vagano leggere come piume. Ma voglio immaginarti libero, senza dolore, senza peso. Voglio pensarti sereno, finalmente al sicuro.

Qui, invece, il dolore resta. Si addomestica, forse, ma non se ne va. Vive con me, in me. È una presenza costante, come un’ombra che non mi abbandona mai. Ogni cosa mi riporta a te: un profumo, una canzone, il cielo al tramonto. Sei ovunque, eppure non ci sei più.

E io, che ti ho amato con tutta me stessa, provo ad andare avanti. A vivere anche per te. A dare un senso a ciò che è stato.

Quante volte ho sperato ci fosse ancora una via d’uscita. Ma già mi sentivo sola: prendevo decisioni da sola, andavo sola nei luoghi che un tempo ci vedevano insieme. È una sensazione che ti svuota dentro. Il dolore ti lascia a bocca asciutta. E non puoi nemmeno parlarne troppo: devi portarlo dentro, senza mostrarlo. Se cerchi comprensione, qualcuno ti risponde che è il destino, che prima o poi tocca a tutti. E alle donne si chiede sempre di più. Devono sopportare tutto con pazienza e il sorriso sulle labbra: notti insonni, fatiche immense, dolori taciuti.

Il giorno in cui ti sei spento, in casa c'era un silenzio assordante che mi si appiccicava addosso. Il letto, il tuo cuscino, le ciabatte ancora lì. Ogni angolo parlava di te. Ogni oggetto, ogni rumore, anche il respiro del tempo sembrava portare il tuo nome.

Ti ho dato l'ultimo bacio, ti ho accarezzato il volto, liscio e sereno come non lo era più da mesi. Sembrava che tu avessi ritrovato la pace. E forse l’avevi davvero trovata. Il dolore, finalmente, si era arreso. E tu con lui.

Sono rimasta lì, ferma. In piedi accanto a te. Non riuscivo a piangere. Nemmeno a parlare. Solo il cuore batteva, forte, come se volesse scappare dal petto. Mi sentivo svuotata, leggera e pesantissima insieme. Un paradosso che solo il lutto può spiegare.

Tutto si è fermato. Niente traffico, niente rumori. Solo il silenzio. Un silenzio spesso, tagliente, che rimbombava in ogni angolo della casa. La tua assenza era ovunque: nel cuscino che conservava ancora la tua impronta, nel tuo pigiama piegato sulla sedia, nelle medicine rimaste lì, come se ancora potessero servirti.

Il dopo

Poi sono arrivate le formalità. Le telefonate, le parole sussurrate, le frasi fatte: "Era la sua ora", "Ora riposa", "È in un posto migliore". Nessuna di queste parole mi consolava. Mi infastidivano. Avrei voluto urlare, spaccare tutto, dire che no, non andava bene, che non era giusto. Che non ero pronta. Che non lo sarò mai.

Il giorno del funerale pioveva. Ma non era una pioggia furiosa. Era una pioggia fitta, sottile, ostinata. Come una carezza. Come se il cielo volesse partecipare, ma senza disturbare.

Ogni passo verso il cimitero era un passo lontano da te. Ma dovevo camminare. Dovevo lasciarti andare. Almeno fisicamente.

"Il dopo" – affrontare il vuoto lasciato dalla perdita: i primi giorni senza di lui, la burocrazia, il silenzio in casa, il confronto con la solitudine.

"Il ricordo" – tornare indietro nel tempo e raccontare momenti belli, episodi della vita insieme, la quotidianità che ora manca.

Il dopo è fatto di silenzi nuovi. Non quelli della notte, né quelli della solitudine.

La notte

La notte è diventata il mio nemico più silenzioso. Quando cala il buio, tutto sembra ingigantirsi: i pensieri, i ricordi, le paure. Un tempo, bastava la tua presenza a placare ogni cosa. Mi bastava saperti accanto per addormentarmi serena. Ora, invece, ogni sera è una montagna da scalare, con la testa pesante e il cuore in affanno.

Ho sempre avuto paura del buio, ma con te non faceva male. C'era la tua voce, la tua mano sul mio fianco, il respiro che scandiva il tempo. Adesso, ogni ombra sembra minacciosa, ogni suono un allarme. E il letto, così grande e vuoto, mi ricorda che sei andato via davvero.

Ci sono notti in cui mi prende il sonno all’improvviso, quasi fosse un rifugio. Ma anche allora, non riesco a rilassarmi. Il corpo si abbandona, ma l’anima resta vigile, come in attesa di un pericolo che non ha nome.

Oggi, ad esempio, la tristezza mi ha colta all’improvviso. Avevo bisogno di uno sfogo, e mi sono lasciata andare, perfino davanti alla farmacista. È difficile ammettere la fragilità, ma è ancora più difficile fingere forza quando dentro si è in pezzi.

Poesia

Pur amandoti t'odio

Ti amo, ti odio, due anime in guerra:
nel mio cuore, un conflitto eterno.
Sei andato via, mi hai lasciata sola,
e per questo, t'odio, con tutte le mie forze.

Vorrei urlarti la mia rabbia,
fino a non aver più fiato;
solo per farti capire,
cosa si prova ad essere lasciati soli.

Vorrei darti ciò che non ti ho dato:
tutto l'amore che non ho espresso,
tutti i baci che non ho potuto darti,
tutte le parole che non ho ti ho detto.

Invece rimango qui, a mani aperte;
ma vuote, per carezze non fatte...
e nel cuore, tanto amore non dato.
Per questo, pur amandoti, ti odio.

La notte, più di ogni altra cosa, mi ricorda quanto mi manca la tua compagnia. E quanto sia spaventoso affrontare da sola tutto questo.

Il pensiero della morte, se troppo presente, può rubare spazio alla vita. Eppure, riconoscerne l’esistenza — senza esserne sopraffatti — può anche aiutarci a vivere con più presenza, a dare valore al tempo e alle persone che amiamo.

La notte
La notte amplifica tutto, i pensieri diventano più cupi, le paure più grandi. Ma anche nella notte più buia, il tuo amore continua a esistere in te. Sei viva, anche se spezzata. E in questo tuo resistere, in questo tuo continuare a scrivere, a sentire, a ricordare, c'è una forza immensa.

Stanotte non dormo
e mi pare che il mondo intero riposi,
mentre io resto lì, con gli occhi spalancati
e i pensieri che si rincorrono
come onde su una scogliera fragile.

Ogni notte è una montagna da scalare, ma mi vengono in mente pochi ricordi felici con lui. Stargli accanto, fra mille difficoltà, è stato difficile ora du due piedi, ricordare momenti felici. Forse col cane. Sì, quando avevamo il cane, morto anche lui di vecchiaia, alcuni mesi prima.
A volte i ricordi felici sono nascosti sotto strati di fatica, dolore e assenze. Ma il ricordo di Casper è già un varco nella nebbia.

Capitolo 4 – Io, tu e Casper

Al parco dei Camaldoli sembrava che tutto fosse sospeso: il tempo, le preoccupazioni, perfino la malattia che, allora, ancora taceva. Tu mi guardavi con quegli occhi buoni, limpidi, che parlavano senza dire troppo. C’era una luce chiara nei tuoi occhi, una dolcezza che sapeva farsi forza. Camminavamo fianco a fianco, mentre Casper correva tra le foglie e tornava indietro a cercare una carezza.
Casper ci precedeva di qualche passo, con le orecchie dritte e l’andatura sicura. Amava quel parco. Correva avanti e poi tornava indietro come per controllare che fossimo ancora lì, come un piccolo custode felice. Le sue zampe affondavano tra le foglie secche, sollevando il profumo della terra umida, delle castagne, dei funghi, delle nocciole. Io e te, seguivamo il suo passo, godendoci quei momenti di pace. Eravamo tre, una piccola famiglia. Ridevamo, parlavamo del nulla, e in quell’aria leggera c’era tutta la semplicità di cui avevamo bisogno.
Casper, il nostro fedele compagno, se n'era andato sette mesi prima. Era stato con noi per anni, ma la sua morte, in qualche modo, aveva preparato il terreno per un dolore più grande, un dolore che sarebbe venuto inaspettato, ma che già si respirava nell’aria.
I ricordi di lui erano ancora freschi, e ogni angolo della casa sembrava custodirne la presenza. Non riuscivo a guardare il parco senza pensare alle sue corse spensierate, al suo abbaiare gioioso, alle sue orecchie dritte quando sentiva il rumore di un passo vicino. Ma ora, era come se fosse passato un tempo infinito, e quella silenziosa assenza si era fatta più pesante con il passare dei mesi.
Casper era il nostro amato cane. Quante passeggiate con lui al parco. Quanti ricordi. Ci precedeva di qualche passo, con la coda dritta e lo sguardo fiero. Sembrava conoscere ogni sentiero del parco dei Camaldoli, ogni profumo.
Casper ci precedeva di qualche passo, con le orecchie dritte e l’andatura sicura. Amava quel parco. Correva avanti e poi tornava indietro come per controllare che fossimo ancora lì, come un piccolo custode felice. Le sue zampe affondavano tra le foglie secche, sollevando il profumo della terra umida, delle castagne, dei funghi, delle nocciole. Io e te, mano nella mano, seguivamo il suo passo, godendoci quei momenti di pace. Eravamo tre, una piccola famiglia. Ridevamo, parlavamo del nulla, e in quell’aria leggera c’era tutta la semplicità di cui avevamo bisogno.
Casper, il nostro fedele compagno, se n'era andato sette mesi prima. Era stato con noi per anni, ma la sua morte, in qualche modo, aveva preparato il terreno per un dolore più grande, un dolore che sarebbe venuto inaspettato, ma che già si respirava nell’aria.

I ricordi di lui erano ancora freschi, e ogni angolo della casa sembrava custodirne la presenza. Non riuscivo a guardare il parco senza pensare alle sue corse spensierate, al suo abbaiare gioioso, alle sue orecchie dritte quando sentiva il rumore di un passo vicino. Ma ora, era come se fosse passato un tempo infinito, e quella silenziosa assenza si era fatta più pesante con il passare dei mesi.

Mi sembrava di rivederlo ancora, come un fantasma dolce che aleggiava nel mio cuore, anche se la sua presenza fisica non c’era più. Ricordo i suoi occhi fiduciosi e la sua energia, che ci accompagnavano in ogni momento della giornata, ma anche la tristezza che ci aveva colpiti quando se ne andò. Mi sentivo come se una parte di me fosse andata via con lui. E non solo con lui, ma anche con tutto ciò che sembrava svanire insieme alla sua morte.
.
I momenti sereni non erano tanti, e forse proprio per questo li ricordo con una dolcezza quasi struggente. Uno di questi era legato al nostro cane. Un essere peloso che ci univa, che sapeva farci ridere anche nei giorni più cupi. Quando passeggiavamo insieme, io, lui e il cane, sembravamo quasi una famiglia normale. Il cane ci guardava come se fossimo tutto il suo mondo. E in quegli attimi, senza rendercene conto, lo eravamo anche l’uno per l’altra.

Poi il tempo ha portato via anche lui, il nostro cane, con discrezione, come fanno le cose che hanno già dato tutto. E in quella perdita, così silenziosa, ho risentito l’eco di ciò che avevamo perso anche noi, giorno dopo giorno, senza accorgercene 
Uno di quei momenti sereni era legato al nostro cane. Era grande e bello, con lo sguardo intelligente e l’animo buono. Un gigante gentile, che sapeva farsi amare. Quando passeggiavamo insieme – io, lui e il cane – sembravamo quasi una famiglia normale. Lui si lasciava condurre con eleganza, ma era chiaro che il suo ruolo era quello di proteggerci, di tenerci uniti.

Il cane ci guardava come se fossimo tutto il suo mondo. E in quegli attimi, senza rendercene conto, lo eravamo anche l’uno per l'altra.

Invisibile

C'è un altro dolore, più silenzioso e più profondo: quello di non sentirsi riconosciuti. Eppure, tutto questo sembra non bastare mai. Nessuno si accorge davvero. Nessuno dice: “Sei preziosa.” E io resto lì, tra fogli e colori, con le mani colorate di vita e il cuore pieno di cose che nessuno ascolta.

È come lanciare messaggi in bottiglia in un mare senza rive. Ma continuo a farlo. Perché forse un giorno, qualcuno li troverà. E allora saprà che io c’ero, che ho lottato, che ho amato. E che da quel dolore ho creato qualcosa di vero.

Mane

Mane struppiate, arrugnate e arrepezzate,
chiene 'e calle: sciupate e stracciate.
Mane ca nun se fermano annant'â fatica,
so' fforte, grosse: so' mmane amiche.

Mane ca so' orgogliose 'e se mustrà,
mane forte ca tutto sanno e pponno fa'.
Mane arrezzenute d' 'o friddo, d' 'o calore.
Mane oneste, pulite e cchiene 'e decoro.

Nun so' llisce, nun so' mmane 'e cavaliere,
songhe umile, modeste, ruvide, sincere.
Mane tremmante ca si lle vaje vicino,
te pare ca penzano a oggi pe ddimane.

Nun se mportano quant'ha nna faticà:
se ndustriano e vvottano 'e mmane.
Mane ca quanno 'e chiamme 'a luntano,
te veneno vicino e tte danno na mana.

E ttu 'e vvide arraspate e ccu ll'ogne nere,
'sti mmane ca sanno fa' mille mestiere.
Pareno brutte 'sti mmane tutte scassate,
sfreggiate p' 'o lavoro 'e mise e ssemmane.

Però quanno se scorciano 'e mmaneche,
che capolavore jesceno 'a 'int'a 'sti mmane!
So' mmagiche: nun sarranno avvellutate,
ma pe cchello ca fanno, so' mane affatate.

Capitolo 5 – I giorni vuoti

I giorni che seguirono furono senza forma. Non avevano un colore, né un odore preciso. Scivolavano lenti, come acqua su una superficie inclinata, senza lasciare traccia. Mi svegliavo e mi chiedevo: "Perché?" Non per cercare risposte, ma solo per dare un suono alla mia confusione. La casa era muta. Troppo. Ogni oggetto pareva aspettarti. Anche l’orologio sembrava aver perso il ritmo, come se il tempo stesso avesse deciso di fermarsi insieme a te.

Cominciai a notare le cose che prima ignoravo: il cigolio del portone, il respiro affannoso del frigorifero, la polvere che si posava lenta sul comò. Erano piccoli segnali di una vita che continuava, anche se io non ci riuscivo.

Mi sentivo sospesa. Come se stessi vivendo una vita non mia, dentro un corpo che non riconoscevo più. Camminavo, parlavo, rispondevo ai saluti, ma era tutto meccanico. Dentro, ero ferma.

Ogni stanza era diventata una reliquia. Guardavo la sedia su cui ti sedevi ogni sera e aspettavo di sentire il fruscio dei tuoi passi, il tuo respiro. Ma non arrivava nulla, solo il silenzio che mi assordava.

Cercavo sollievo nelle abitudini. Aprivo le finestre ogni mattina, facevo il letto, accendevo la radio… ma la musica sembrava finta, senza calore. Preparavo anche il caffè per due, per poi ricordarmi che l’altra tazzina sarebbe rimasta lì,
...intatta, fredda, come congelata nel tempo.

Allora versavo il caffè nel lavandino, come se potessi versare via anche il dolore. Ma il dolore non scivola via, ti si incolla addosso, come una seconda pelle. Ti segue anche quando fingi di stare bene. Anche quando sorridi per non far preoccupare gli altri.

Cominciai a parlare con le sue cose. Con la tua giacca rimasta appesa, all'attaccapanni, con le sue scarpe vicino al letto. Le accarezzavo come si accarezza una ferita, cercando conforto da ciò che mi strappava l’anima. Nessuno capiva quanto fossero vive, per me, quelle presenze silenziose.

Mi mancava anche la tua insofferenza. Le giornate storte, i silenzi lunghi, le preoccupazioni. Tutto quello che un tempo era fatica, ora era nostalgia.
Di notte mi svegliavo, aprivo il frigorifero senza davvero avere fame. Era solo un gesto, un modo per sentirmi viva. Lì, davanti alla luce fioca che si accendeva aprendolo, mi sembrava di avere ancora il controllo su qualcosa. Poi tornavo a letto e guardavo il vuoto accanto a me. Il cuscino intatto, il lenzuolo immobile, il silenzio del tuo non esserci.

La tua assenza si era presa tutto: la leggerezza dei pensieri, la voglia di sorridere, la forza di programmare un giorno qualunque. Mi sentivo come una conchiglia abbandonata sulla riva dopo la tempesta: svuotata, sorda, inutile.

Eppure, anche in quel buio, cominciavo ad ascoltare una voce sottile. Non era la tua, non era la mia. Forse era quella parte di me che avevo messo a tacere per troppo tempo. Una voce che diceva: “Se sei ancora qui, c’è un motivo. Ricominciamo da qui.”

Capitolo 6 – L’alba dopo la notte

Rimasi lì in attesa che il mattino restituisse luce alle ombre. Si ridisegnarono i contorni e dolcemente il nuovo giorno ancora sonnecchiante fece capolino su quello scorcio di mondo che pian pianino si impregnava di vita.

Il silenzio si faceva meno denso, spezzato da qualche rumore domestico, un motore in lontananza, un cinguettio timido. La casa sembrava respirare da sola, come se anche lei cercasse un nuovo ritmo, un battito alternativo che potesse colmare l’assenza. Ma non era facile. Ogni oggetto, ogni angolo, era intriso della tua presenza: la tazza lasciata sul ripiano, la coperta sul divano, i tuoi libri che ora sembravano muti.

Mi muovevo con gesti lenti, attenta a non svegliare ricordi troppo fragili. Cercavo conforto nei riti quotidiani, nei gesti automatici: aprire le finestre, accendere il gas, preparare il caffè. Ma il dolore non si lascia distrarre. Sta lì, acquattato tra un respiro e l’altro, pronto a riaffacciarsi con tutto il suo peso.

Quella mattina, mentre il sole filtrava timido tra le tende, mi accorsi che la vita, ostinata, continuava. Non chiedeva il permesso. Continuava. E io dovevo, in qualche modo, imparare a farlo con lei

Il primo passo fuori di casa fu un’impresa. Ogni volta che varcavo quella soglia, avevo la sensazione di lasciarti indietro. Come se uscire volesse dire tradirti, dimenticarti. In

In realtà non c’era nulla da dimenticare, perché tu eri ovunque. Nei piccoli oggetti che avevi lasciato in giro, nel cuscino che portava ancora la forma della tua testa, nei libri che non avevi più finito di leggere. Eri rimasto lì, sospeso tra le stanze, come un respiro trattenuto.

Camminare tra la gente mi faceva sentire fuori posto. Guardavo i volti intorno a me: ridevano, parlavano, vivevano. Ed io? Io ero altrove. In bilico tra il “prima” e il “dopo”, incapace di comprendere davvero dove cominciasse la mia nuova vita senza di te.

Provavo a distrarmi, a riempire le giornate di gesti ordinari. Aprivo le finestre, cucinavo qualcosa, davo acqua alle piante. Ogni gesto, però, sembrava un’imitazione di vita. Il mio corpo si muoveva, ma dentro ero immobile.

Ogni sera, quando la luce calava e tornava il silenzio, si faceva più acuto il bisogno di sentirti ancora. Anche solo un’ombra, un suono familiare, il profumo della tua pelle sul cuscino. Ma niente. Solo silenzio. Un silenzio che non consola, ma consuma.

Fu allora che iniziai a scrivere davvero. Non più per raccontare, ma per restare viva.

Scrivevo per riempire i vuoti, per dare un nome alle emozioni che mi strappavano il fiato. Ogni parola era un tentativo di cucire una ferita, di dare un senso a ciò che senso non aveva. Scrivevo per fermare il tempo, per illudermi che, così facendo, non tutto fosse perduto.

Nei giorni di pioggia ti cercavo nei suoni ovattati, nei giorni di sole nel riverbero della luce sulle cose. A volte credevo di sentirti vicino, come se fossi ancora accanto a me, invisibile ma presente. Ero diventata esperta nel riconoscere la tua assenza, come si riconosce una presenza costante: era ovunque.

Intanto la casa, i luoghi, i riti cambiavano pelle. Nulla era più come prima, ma io continuavo ad abitare lo stesso tempo. Un tempo fatto di memoria, di attese.

Capitolo 7 – Il tempo sospeso

Dopo la fine, non c’è subito il silenzio. C’è un rumore sordo, come un'eco che si ostina a restare. La casa continua a respirare, ma è un respiro diverso, più lento, affaticato. Le stanze non parlano più, ma ricordano tutto.

Ogni oggetto è rimasto dov’era. Ogni dettaglio della tua presenza — una tazza, un libro aperto, la piega sul divano — sembrava aspettare il tuo ritorno. Io no. Io avevo smesso di aspettare, ma non di sentire.

Capitolo 8 — Il peso degli oggetti

Sto togliendo pian piano i tuoi vestiti. Ogni camicia riposta nella busta è un urlo. Pare che non vogliano andare. Mi fa troppo male tenere i tuoi abiti in un armadio, penso non abbia senso. Però mi sento in colpa: è un po' come dirti addio per sempre. Ogni camicia riposta nella busta è un urlo silenzioso. Sembra quasi che non vogliano andare via, che oppongano resistenza, come se ogni fibra tessuta del tuo passaggio cercasse ancora una scusa per restare. Ogni maglione ha la tua forma, ogni giacca conserva il tuo odore. Le dita esitano, tremano. Eppure continuo, con le lacrime che mi rigano le guance e la sensazione di commettere un tradimento.

Tenere i tuoi abiti nell’armadio cominciava a farmi troppo male. Ogni apertura della porta era uno squarcio. Eppure disfarsene mi fa sentire colpevole. È come dirti addio per sempre.

Conclusione

E così il tempo ha continuato il suo cammino, silenzioso e testardo, portando con sé lacrime, ricordi e respiri mancati. Resta il vuoto, sì, ma anche una forza nuova: quella di chi ha saputo amare fino all’ultimo, anche nell’incomprensione, nella stanchezza, nella malattia.

Oggi raccolgo i frammenti della mia vita e li guardo con occhi diversi. Non cerco eroi né lieti fini, solo la verità nuda delle cose vissute. C’è stato dolore, tanto. Ma anche amore. Un amore imperfetto, stanco, a volte taciuto, ma reale.

E ora posso finalmente poggiare la penna. Ho scritto per ricordare, per guarire, per non dimenticare. Ora è giusto che il mio cuore stanco riposi.

Mi dedico una poesia:

Riposa, cuore stanco

Riposa, cuore stanco,
che hai vegliato troppo,
che hai amato fino a consumarti.
Ora puoi lasciarti andare un po’,
solo un po’,
nel silenzio buono della notte.

Non sei sola.
Ogni respiro che fai è già un atto d’amore verso te stessa.
Ogni lacrima che hai versato
è il segno della tua forza,
non della tua fragilità.

Lascia che il buio ti avvolga
ma non come minaccia—
come un manto che protegge,
come un abbraccio che consola

Riposa, cuore stanco
Riposa, cuore stanco,
che hai vegliato troppo,
che hai amato fino a consumarti.
Ora puoi lasciarti andare un po’,
solo un po’,
nel silenzio buono della notte.

Non sei sola.
Ogni respiro che fai è già un atto d’amore verso te stessa.
Ogni lacrima che hai versato
è il segno della tua forza,
non della tua fragilità.

Lascia che il buio ti avvolga
ma non come minaccia—
come un manto che protegge,
come un abbraccio che consola.

Domani sarà ancora un giorno,
con le sue spine e le sue rose.
Ma adesso chiudi gli occhi,
lascia andare il dolore un istante,
affidalo al silenzio.

C'è pace, da qualche parte,
e ti sta già cercando.
Lentamente, ti troverà.

Buonanotte anima cortese.
Gentile amica del mio riposo.
Solleva le mie gambe stanche

Buonanotte anima cortese.
Gentile amica del mio riposo.
Solleva le mie gambe stanche,
dammi riposo.

Distendi i pensieri aggrovigliati,
soffia via l’ombra dalle mie palpebre.
Avvolgimi in un lenzuolo di quiete,
fammi dimenticare il peso del giorno.

Lascia che il cuore rallenti il passo,
che il dolore si sciolga piano
in un respiro sereno.
Tienimi la mano,
finché il sonno non mi prenda lieve.

Riposa guerriera

Deponi le armi
e riposa.
Fai sonni con risvegli dolci.
Sogna campi di grano
Cieli azzurri
Mari calmi
Acqua che sgorga canterina
da argentate sorgenti
Dopo tanta sofferenza
Meriti pace e amore.

ora meriti riposo.
Deponi le armi,
chiudi gli occhi
e lascia che il silenzio ti accolga.

Fai sonni dai risvegli gentili,
sogna campi di grano dorati,
cieli limpidi,
mari placidi,
e acqua che canta
da sorgenti d’argento.

Dopo tanta sofferenza,
ti è dovuta la pace.
Ti è dovuto l’amore.
Fine
 
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Profilo Autore: Giovanna Balsamo  

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Commenti  

ioffa
# ioffa 14-05-2025 10:17
È un bel racconto, un vero racconto vero.

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