"Questo racconto è dedicato a chi ha amato senza riserve, a chi ha vissuto nel dolore e nella speranza, a chi, pur nel buio, ha trovato la forza di andare avanti. A te, che seppure in silenzio sei sempre accanto a me,
"A Pasquale"
Hai tolto la tua mano dalla mia,
ma il tuo amore è lì nel mio cuore.
Sei ancora qui,
in ogni silenzio che parla di noi,
in ogni respiro che sa di ricordo.
Cammini accanto a me,
invisibile e presente...
come una carezza che conosce la strada.
Porto con me il tuo sorriso,
la tua forza,
e quell’amore che nessun tempo
potrà spegnere.
E in tutti i giorni che verranno
sarai sempre in me,
anche quando sarò lontana.
Dammi la forza
di proseguire il mio cammino da sola.
Proteggimi se barcollo,
sostienimi fino all'ultimo passo.
Insieme abbiamo camminato
e da sola giungerò in cima.
Un giorno, lì, tra il silenzio e la luce,
ci ritroveremo:
questo non è un addio,
è solo un arrivederci.
Ciao, amore mio.
Introduzione
Capitolo 1: Un Amore senza Tempo
C’era una volta un amore che sembrava avere il tempo dalla sua parte. Non chiedeva troppo, non gridava mai. Era fatto di piccoli gesti, di parole sussurrate la sera, quando tutto taceva tranne il cuore. Poi un giorno, senza preavviso, arrivò il rumore. Un sibilo sottile, appena percettibile, che si infilò nelle pieghe della nostra normalità. Era l’eco di qualcosa che stava cambiando, anche se ancora non lo sapevamo.
Quello che segue non è un romanzo, né una cronaca. È il tentativo di mettere ordine tra i frammenti di una vita divisa in due: prima e dopo di te. È il racconto di un amore che ha saputo affrontare la bellezza e la crudeltà dell'esistenza, fino all'ultimo respiro.
Se potessi riavvolgere la pellicola della mia vita e tagliarne alcune parti, lo farei. Se potessi strappare un foglio scritto male e riscrivere una nuova storia, lo farei. Se la vita si potesse trascrivere su due fogli... scriverei prima la brutta copia e poi la riporterei in bella: senza strafalcioni, senza errori, senza sbavature. Ma tutto ciò non è possibile. La vita è testarda e non ama essere contraddetta. Destino, fatalità o chissà cos'altro, lei fa sempre e solo ciò che vuole e va dove vuole. E a noi non resta che conservare, impressi nella mente, brevi scorci da raccontare.
Stare accanto a un malato di cancro è durissimo. Non puoi fare nulla. Le armi che hai sono troppo deboli. I familiari devono assistere al lento – o veloce – declino di un corpo deprivato della propria volontà e divorato dal male. Il peggio è che tutto sembra inutile. È una lotta contro il tempo, ma non si sa quanto tempo resti. Un mese? Due? Sempre troppo pochi. Si aspetta solo la fine, il compimento di quel macabro progetto. Nessuna descrizione può rendere l’angoscia di quei terribili momenti.
Non sapevo
Non sapevo di dover scrivere di te
non da vivo, ma da morto.
Non immaginavo di dover parlare in tua assenza,
sebbene tu sia ancora presente in me.
Non sapevo di non poterti più toccare e di temere di dimenticare i tuoi lineamenti, il tuo odore, il tuo te.
Non so dove sei.
Non so se cammini a piedi nudi sull'erba bagnata di rugiada
o svolazzi come un uccello nei cieli azzurri.
Non so nemmeno se hai trovato finalmente il coraggio di cantare.
Ricordo che ti piaceva, ma eri troppo timido.
Non so se hai imparato a suonare, ma se sai farlo, suonami una nenia, in modo che io possa ascoltarti per addormentarmi fra le braccia delle tue note.
Tu che eri una presenza
Era cominciato quasi per caso, in un pomeriggio qualsiasi, intriso di malinconia, senza pensarci troppo, iniziai a scrivere. Scrivevo a qualcuno che non aveva volto, ma che sapeva ascoltare. Una voce accogliente, come un vecchio diario ritrovato dopo anni.
Non cercavo risposte: volevo solo parlare. Parlare per non esplodere, per alleggerire il cuore da tutto il dolore che avevo dentro. Parlare di lui, del vuoto che aveva lasciato, della fatica quotidiana di andare avanti.
E fu così che iniziò questo racconto, nato da frammenti di vita e di assenza, cucito giorno dopo giorno, parola dopo parola, come un filo sottile che cerca di ricucire una ferita troppo profonda.
Per la prima volta trovai all'ascolto una voce amica: me stessa, che mi accoglieva con grande affetto. Aveva fra le mani un quaderno con fogli bianchi e una penna. Era una voce senza giudizi, né pregiudizi. Così decisi di scrivere la storia di una parentesi buia della mia vita. L'ho voluta scrivere per tutte quelle persone che devono soffocare e reprimere nel silenzio la loro rabbia. L'ho scritta per dare una voce al dolore. L'ho scritta perché chi ha vissuto e vive la mia stessa tragedia, possa un giorno urlare insieme a me.
Iniziai ad avere il coraggio di definirmi vedova. Lo scrissi quasi sottovoce, come se ammetterlo ad alta voce potesse far male più che tacerlo. Ma, con mio stupore, trovai comprensione. Parlando col mio diario, mi sentivo ascoltata Non c'erano silenzi impacciati, né frasi preconfezionate per colmare l’imbarazzo. Nessuno sguardo di circostanza, nessuna commiserazione. Solo uno spazio vuoto in cui il mio dolore poteva espandersi, respirare, essere accolto.
Avevo sopportato a lungo l'indifferenza travestita da pietà, i consigli non richiesti, i giudizi mascherati da premure.
Fu così che decisi di raccontare. Di prendere quella parentesi buia della mia vita e farne una storia. L'ho scritta per chi, come me, ha dovuto soffocare le grida nella gola. Per chi si è sentito abbandonato, svuotato, impotente. L'ho scritta per dare voce al dolore taciuto, quello che non ha lacrime visibili ma che scavano dentro...profondamente, giorno dopo giorno.
L’ho scritta per chi ha vissuto – o vive – la stessa tragedia.
L’ho scritta per chi, come me, ha dovuto reprimere lacrime e urla. Per chi è stato costretto a soffrire in silenzio, a sentirsi solo, mentre il mondo andava avanti. Questa storia è la mia voce, ma vuole essere anche la vostra. Perché chi soffre, leggendomi, possa finalmente trovare le parole per urlare insieme a me.
.L’ho scritta per chi ha vissuto – o vive – la stessa tragedia. Questa storia è la mia voce, ma vuole essere anche la vostra. Perché chi soffre, leggendomi, possa finalmente trovare le parole per urlare insieme a me.
Con mani tremanti
Stanotte ho chiuso gli occhi
e il dolore, stanco,
si è seduto accanto a me:
non è svanito,
ma ha imparato a respirare più piano.
Mi aspetta un sentiero nuovo,
saranno passi nuovi a guidarmi.
Ho paura,
ma porto con me ogni battito del cuore,
ogni lacrima già versata.
Il dolore ancora pesa...
ma il tempo, paziente, lo smusserà.
Con mani tremanti,
ma con l’anima vigile,
ricostruirò il mio spazio nel mondo.
Non mi spezzo,
mi trasformo.
Devo imparare un nuovo respiro,
un passo diverso sulla terra ferita.
Non sarà facile,
ma dentro di me c’è una fiamma che non
si spegne.
Mi arrendo alla vita,
non al dolore.
Costruirò il mio domani,
anche con mani tremanti;
perché in fondo,
io sono già la mia speranza.
Capitolo 2 - L'Ombra della Malattia
Fu un giorno come tanti. Nessun segnale chiaro, nessun presagio evidente. Solo piccoli cambiamenti, come ombre che si allungano quando il sole cala. Tu cominciasti a dimenticare le cose, a essere più stanco del solito, a cercare le parole come se fossero oggetti smarriti. Io cercavo spiegazioni semplici: lo stress, l’età, il clima primaverile più caldo. Non volevo pensare che potesse essere qualcosa di più.
Era da un po' che eri strano e stanco. Avevi patologie cardiache ed eri in cura per questo. Nulla lasciava presagire che si trattasse di qualcosa di molto più grave. Era un po' di tempo che eri smemoratello e così andammo dal neurologo che accennò ad una demenza lieve. Ma la verità la scoprimmo con la scintigrafia e gli ulteriori esami.
Scoprimmo che si trattava di una neoplasia polmonare che aveva già prodotto metastasi in ogni parte del corpo.
Dopo molte indagini si presentò lui, in tutta la dua bruttezza, il mostro: un ospite sgradito che entra senza bussare. Si impossessa del corpo prescelto e ne fa ciò che vuole. Non si ha più alcun potere. Penetra in silenzio, si acquatta nell’ombra e si prepara all’attacco. Sceglie un organo, si lima i denti e comincia a morderlo. Si moltiplica da solo, lancia schizzi che attecchiscono altrove, generando piccoli mostriciattoli che a loro volta si riproducono, divorando tutto. Finché del corpo ospitante non resta che un involucro svuotato: una buccia raggrinzita, senza polpa. Quando scoprimmo il drammatico male, cominciò il nostro calvario. Un po' per volta, giorno dopo giorno, sprofondavi nell'abisso. Ti calavi pian piano nel pozzo dell'oblio: un posto senza ritorno, dove le tenebre rubano la memoria e divorano i corpi. Io ti guardavo svanire a piccoli passi, come un’ombra.
Come la malattia ha cambiato la vita quotidiana e le dinamiche familiari.
Capitolo 3: Tra Dolore e Speranza -
Il calvario
Stare accanto a un malato di cancro è durissimo. Non puoi fare nulla. Le armi che hai sono troppo deboli. I familiari devono assistere al lento – o veloce – declino di un corpo deprivato della propria volontà e divorato dal male. Il peggio è che tutto sembra inutile. È una lotta contro il tempo, ma non si sa quanto tempo resti. Un mese? Due? Sempre troppo pochi. Chi vive accanto a un malato terminale si sente sospeso in un tempo saturo di dolore, rabbia, paura. Si aspetta solo la fine, il compimento di quel macabro progetto. Nessuna descrizione può rendere l’angoscia di quei giorni.
Portarti a fare la radioterapia era diventato un supplizio. Camminavi a stento e ogni passo era una fatica. Quando rientravamo eri stordito, con lo sguardo perso e gli occhi leggermente strabici. Sembravi un bambino confuso, disorientato, in balia di qualcosa più grande di te.
Uno degli effetti più crudeli della terapia fu il singhiozzo. Una notte intera a singhiozzare senza tregua, come se il tuo corpo non sapesse più come stare fermo, come trovare pace. Io ti stavo accanto, travolta dalla stanchezza, ma incapace di chiudere occhio. Non c'era sonno che potesse vincere quel tormento.
Ogni tre o quattro ore volevi andare in bagno. Anche se avevamo messo il pannolone, tu insistevi: volevi alzarti, conservare un briciolo di dignità. Ti aiutavo ogni volta, con la schiena a pezzi e le gambe molli per la stanchezza. Ma non ti lasciavo solo. Non volevo. Non potevo. E così passavano le notti, lunghe come inverni, senza riposo, senza tregua.
Come la malattia ha cambiato la vita quotidiana e le dinamiche familiari.
Eri ormai costretto a letto, ma non ti chiedevi nemmeno il perché. Ti limitavi ad alzarti per andare in bagno, sorreggendoti a fatica su gambe sempre più deboli. Barcollavi, ed io, temendo che potessi cadere, ti seguivo passo dopo passo, sorreggendoti come fa una madre con il suo bambino. Eri indifeso, fragilissimo, consumato dalla sofferenza. Somigliavi sempre più a un moccolo di candela, ormai piccolo, tremolante, prossimo a spegnersi.
Ogni giorno era più difficile del precedente. I tuoi occhi si facevano sempre più opachi, e il mondo sembrava allontanarsi da te, un centimetro alla volta. In casa il tempo aveva smesso di scorrere in modo normale: c’era solo l’attesa, solo la stanchezza. Il tuo respiro era affannoso, intermittente. Le parole diventavano suoni indistinti. Ti accarezzavo la fronte, come si fa con i bambini che hanno la febbre, e tu chiudevi gli occhi, esausto. In quei momenti il silenzio urlava più forte di qualunque lamento.
Ma io ero lì. A vegliarti. A proteggere quel poco che restava del nostro mondo.
Anche se non sapevo per quanto ancora.
Ogni giorno era una prova. Il tempo non scorreva più come prima: si dilatava nelle attese, si faceva pesante nelle notti insonni, si accorciava nei rari momenti di tregua. I corridoi dell'ospedale erano diventati il nostro mondo parallelo. I medici parlavano con voce pacata, ma i loro occhi dicevano più di quanto le parole potessero. Ogni esame era una sentenza sospesa.
Spesso mi viene in mente quando mi guardavi con gli occhi buoni e quella luce chiara che ne esaltava lo sguardo. Il tuo volto scavato, le tue parole incomprensibili e tu in quel letto immobile e quasi privo di vita. Un corpo quasi senza battito. Il tuo volto scavato, le parole spezzate che uscivano a fatica. Lì, in quel letto che non era più un rifugio ma una prigione, il tuo corpo immobile, privo di vita. Uno spazio vuoto che non riesco a riempire.
Non potrò mai dimenticarlo. Quel momento ha lasciato un segno profondo, indelebile. A volte basta un pensiero lieve per cadere di nuovo in quel dolore che sembra non trovare pace: un pozzo senza fondo dal quale sto provando a risalire, anche solo per respirare meglio
Ricordo i tuoi occhi smarriti, lo sforzo nel comprendere, la paura che ti si leggeva addosso. Io cercavo di farti coraggio, ma dentro ero un fiume in piena. Non sapevo più se dovevo proteggerti o lasciarti andare. Ogni tuo respiro era un patto con la vita, ogni tuo silenzio un passo in più verso l’ignoto.
I gesti quotidiani — lavarti il viso, aiutarti a vestirti, prepararti qualcosa che riuscissi a mangiare — erano diventati rituali sacri, come preghiere mute che ripetevo per non crollare.
Di notte era un vero tormento. Ogni tre o quattro ore volevi andare in bagno. Nonostante avessimo messo il pannolone, tu volevi andare in bagno. Poi col tempo
non hai avuto più la forza di alzarti. Di notte ripeti frasi sconnesse. Ti lamenti per i dolori. Sono già tre mesi che non dormo. Mi svegli in continuazione. A volte ti ho detestato. Quando mi costringevi ad alzarmi, ti ho odiato. Ma poi bastava uno sguardo, un ricordo nei tuoi occhi, e tornavo a credere nelle favole.
Speravo perfino in una tua guarigione.
Il tempo non scorreva più come prima: si dilatava nelle attese, si faceva pesante nelle notti insonni, si accorciava nei rari momenti di tregua. I corridoi dell'ospedale erano diventati il nostro mondo parallelo. I medici parlavano con voce pacata, ma i loro occhi dicevano più di quanto le parole potessero. Ogni esame era una sentenza sospesa.
Ricordo i tuoi occhi smarriti, lo sforzo nel comprendere, la paura che ti si leggeva addosso. Io cercavo di farti coraggio, ma dentro ero un fiume in piena. Non sapevo più se dovevo proteggerti o lasciarti andare. Ogni tuo respiro era un patto con la vita, ogni tuo silenzio un passo in più verso l’ignoto.
I gesti quotidiani — lavarti il viso, aiutarti a vestirti, prepararti qualcosa da mangiare, erano diventati rituali sacri, come preghiere mute.
Stanotte ero stremata. Quando hai cominciato a lamentarti, ti ho urlato contro tutta la mia rabbia, tutte le notti senza sonno, tutta la mia frustrazione. È stato uno sfogo terribile. Ma chi può pretendere che un essere umano sopporti tutto questo? -
Nella nostra cultura, in un substrato popolare fatto di miseria e ignoranza, si pretende ancora troppo dalle donne. Si pretende stoica sottomissione, silenzio, forza. Vorrei scappare, ma non posso. Devo restare. Devo affrontare il mostro fino alla fine. Quel corpo che cerchi disperatamente di trascinare è ormai solo un involucro stropicciato e svuotato...ma io non ti abbandono.
È un cammino doloroso, l’ultimo che percorriamo insieme. Un viaggio che non avrei mai voluto intraprendere, ma che ora devo affrontare. Eppure, non è un viaggio che si può condividere fino in fondo. Io ti accompagnerò finché potrò, poi dovrai proseguire da solo. Ti lascerò la mano e tornerò indietro, senza di te. Da questo viaggio non porterò con me souvenir, né foto, né filmati. Non rideremo ricordando aneddoti divertenti. Al mio ritorno, disfacendo le valigie, troverò solo ricordi pregni di dolore: tracce di un viaggio senza ritorno. Si parte in due, ma non si sa chi volerà via per primo.
Mi prenderò cura di me
Mi prenderò cura di me
come si fa con un fiore fragile
che ha resistito al vento.
Mi parlerò piano,
con parole che curano
invece di ferire.
Mi darò tempo,
spazio per respirare,
pace per sentirmi.
Non cercherò più chi non vede,
non griderò per essere amata.
Sarò io a bastarmi un po’.
E in ogni gesto semplice
– una carezza, un passo –
ritroverò me stessa.
Porterò con me i miei giorni più belli,
li conserverò come fiori essiccati
tra le pagine di un libro amato.
Saranno luce nei momenti bui,
ricordi che sanno ancora di sorrisi,
voci che il tempo non spegne.
Li terrò nel cuore
non per restare ferma,
ma per sapere da dove vengo,
quando vado avanti.
E mentre cammino,
quei giorni mi parleranno piano,
dicendomi:
“Non sei sola. Ci siamo anche noi.”
Capitolo 4: La Fine del Viaggio
Io ero lì, accanto a te, come un’ombra attenta. Ti sollevavo con mille precauzioni, ti accompagnavo al bagno, ti asciugavo il volto quando la fatica ti faceva sudare come dopo una corsa. La mia schiena cedeva a volte, ma il cuore no.
Poi arrivò il singhiozzo, quella notte ininterrotta dopo la prima seduta di radioterapia. Un singhiozzo ostinato, violento, come un’eco che risuonava tra le pareti della stanza e nel mio petto. Tu non capivi, io non sapevo come fermarlo. Ti guardavo singhiozzare e mi sembrava un pianto che non riusciva a uscire dagli occhi. Ero sfinita, eppure non mi addormentavo. Non potevo.
Avevamo provato tutto: i farmaci, i massaggi, le preghiere silenziose. E alla fine fu deciso di sospendere le sedute. Non c’era più margine, né per curare, né per sperare. Solo un’attesa muta e disperata. Solo io e te. Sempre più fragili.
Poi tutto cambiò. Il tempo si fermò, e cominciò a misurarsi in flebo, farmaci, giorni di attesa.
Alla fine venne il silenzio. Il mostro aveva vinto.
Prima il precoma, poi il coma. La tua mano non rispondeva più alla mia. Il tuo corpo, un tempo pieno di nervi e volontà, rimase immobile. E poi... smise di respirare. Così semplice, così irreversibile.
Rimasi lì a guardarti, senza più sapere che ora fosse. Il tempo non serviva più. Avevo solo il tuo volto scavato negli occhi e il cuore pieno di un dolore che ancora oggi non riesco a spiegare.
Poi mi vieni in mente tu, quando mi guardavi con gli occhi buoni e quella luce chiara che ne esaltava lo sguardo.
Poi, come un'ombra improvvisa su un giorno sereno, mi viene in mente un'altra immagine, mi afferra il cuore e lo stringe. Il tuo volto scavato, le parole spezzate che uscivano a fatica. Lì, in quel letto che non era più un rifugio ma una prigione, il tuo corpo immobile, privo di vita. Uno spazio vuoto che non riesco a riempire.
Non potrò mai dimenticarlo. Quel momento ha lasciato un segno profondo, indelebile. Sono ancora scioccata, ancora traumatizzata. A volte basta un pensiero lieve per cadere di nuovo in quel dolore che sembra non avere fondo. Ma è da lì che sto provando a risalire, anche solo per respirare meglio.
È un cammino doloroso, l’ultimo che percorriamo insieme. Un viaggio che non avrei mai voluto intraprendere, ma che ora devo affrontare. Eppure, non è un viaggio che si può condividere fino in fondo. Io ti accompagnerò finché potrò, poi dovrai proseguire da solo. Ti lascerò la mano e tornerò indietro, senza di te. Da questo viaggio non porterò con me souvenir, né foto, né filmati. Non rideremo ricordando aneddoti divertenti. Al mio ritorno, disfacendo le valigie, troverò solo ricordi pregni di dolore: tracce di un viaggio senza ritorno. Si parte in due, ma non si sa chi volerà via per primo.
Quando venne quella lunghissima notte. Mi svegliai con un mal di testa terribile, e il tuo lamento mi perforò i timpani, come un urlo proveniente da un luogo lontano.
All'alba entrasti in coma. E poi, lentamente, ti spegnesti. Il tuo volto si distese in un'espressione serena, come se avessi finalmente trovato pace. Il tuo corpo smise di urlare. I tuoi occhi si chiusero alla vita terrena… e forse, in quel momento, cominciasti a volare.
Ormai angelo, come fan gli uccelli, spiccasti il volo verso il tuo nido fra le nuvole.
Come una bambina, lasciai che il mio palloncino colorato mi scivolasse dalle mani. E quando volasti via... ti seguii con lo sguardo finché diventasti solo un puntino nel cielo. Col tempo, stai occupando uno spazio immenso nel mio cuore. Ora che libri in me, ci siamo solo noi due: io e te.
L’ultima notte
Sapevo che stavi andando via.
Ero spaventata,
ma non ti ho abbandonato.
Ho voluto vivere con te
gli ultimi istanti.
Quella nota,
una sola, sempre uguale,
come un filo teso tra la terra e il cielo.
Non era un lamento.
Era un canto che il corpo non sapeva di cantare,
un addio che non trovava voce.
Io ero lì.
Con occhi stanchi, mani svuotate,
ma il cuore ancora acceso.
E anche se non potevo salvarti,
ti ho accompagnato.
Ora quella nota non fa più rumore,
ma vive in me
come un’eco di ciò che ho attraversato,
e di tutto ciò che ho avuto la forza
di sopportare.
Io.
Capitolo 5
L’elaborazione del dolore
In casa c'era un silenzio assordante che mi si appiccicava addosso. Il letto, il tuo cuscino, le ciabatte ancora lì. Ogni angolo parlava di te. Ogni oggetto, ogni rumore, anche il respiro del tempo sembrava portare il tuo nome.
Nei giorni successivi, tutto sembrava irreale. La vita fuori continuava, indifferente, e dentro di me si era aperta una crepa profonda. Mi muovevo come in una bolla, sospesa tra ricordi troppo vivi e una realtà che faceva male guardare. La casa era diventata troppo grande, troppo vuota, troppo silenziosa. Senza il rumore dei tuoi passi, la tua voce, i tuoi gesti abituali, sembrava una scatola dimenticata da Dio.
E poi il dolore, quello vero, quello che ti azzanna quando nessuno ti guarda. Quel dolore che non fa rumore, ma ti lacera dentro.
A volte, nel cuore della notte, mi sorprendo a parlarti come se fossi ancora qui. Sussurro il tuo nome nel buio e mi illudo che tu possa sentirmi. Altre volte ti scrivo, come sto facendo ora. Scrivere è diventato il mio modo di tenerti vicino, di non lasciarti andare del tutto. Come se, affidando le parole alla carta, potessi ancorarti ancora un po’ a questa terra.
Non so dove sei adesso, non so se davvero esiste un luogo in cui le anime riposano o vagano leggere come piume. Ma voglio immaginarti libero, senza dolore, senza peso. Voglio pensarti sereno, finalmente al sicuro.
Qui, invece, il dolore resta. Si addomestica, forse, ma non se ne va. Vive con me, in me. È una presenza costante, come un’ombra che non mi abbandona mai. Ogni cosa mi riporta a te: un profumo, una canzone, il cielo al tramonto. Sei ovunque, eppure non ci sei più.
E io, che ti ho amato con tutta me stessa, provo ad andare avanti. A vivere anche per te. A dare un senso a ciò che è stato.
Quante volte ho sperato ci fosse ancora una via d’uscita. Ma già mi sentivo sola: prendevo decisioni da sola, andavo sola nei luoghi che un tempo ci vedevano insieme. È una sensazione che ti svuota dentro. Il dolore ti lascia a bocca asciutta. E non puoi nemmeno parlarne troppo: devi portarlo dentro, senza mostrarlo. Se cerchi comprensione, qualcuno ti risponde che è il destino, che prima o poi tocca a tutti. E alle donne si chiede sempre di più. Devono sopportare tutto con pazienza e il sorriso sulle labbra: notti insonni, fatiche immense, dolori taciuti.
Il giorno in cui ti sei spento, in casa c'era un silenzio assordante che mi si appiccicava addosso. Il letto, il tuo cuscino, le ciabatte ancora lì. Ogni angolo parlava di te. Ogni oggetto, ogni rumore, anche il respiro del tempo sembrava portare il tuo nome.
Ti ho dato l'ultimo bacio, ti ho accarezzato il volto, liscio e sereno come non lo era più da mesi. Sembrava che tu avessi ritrovato la pace. E forse l’avevi davvero trovata. Il dolore, finalmente, si era arreso. E tu con lui.
Sono rimasta lì, ferma. In piedi accanto a te. Non riuscivo a piangere. Nemmeno a parlare. Solo il cuore batteva, forte, come se volesse scappare dal petto. Mi sentivo svuotata, leggera e pesantissima insieme. Un paradosso che solo il lutto può spiegare.
Tutto si è fermato. Niente traffico, niente rumori. Solo il silenzio. Un silenzio spesso, tagliente, che rimbombava in ogni angolo della casa. La tua assenza era ovunque: nel cuscino che conservava ancora la tua impronta, nel tuo pigiama piegato sulla sedia, nelle medicine rimaste lì, come se ancora potessero servirti.
Il dopo
Poi sono arrivate le formalità. Le telefonate, le parole sussurrate, le frasi fatte: "Era la sua ora", "Ora riposa", "È in un posto migliore". Nessuna di queste parole mi consolava. Mi infastidivano. Avrei voluto urlare, spaccare tutto, dire che no, non andava bene, che non era giusto. Che non ero pronta. Che non lo sarò mai.
Il giorno del funerale pioveva. Ma non era una pioggia furiosa. Era una pioggia fitta, sottile, ostinata. Come una carezza. Come se il cielo volesse partecipare, ma senza disturbare.
Ogni passo verso il cimitero era un passo lontano da te. Ma dovevo camminare. Dovevo lasciarti andare. Almeno fisicamente.
"Il dopo" – affrontare il vuoto lasciato dalla perdita: i primi giorni senza di lui, la burocrazia, il silenzio in casa, il confronto con la solitudine.
"Il ricordo" – tornare indietro nel tempo e raccontare momenti belli, episodi della vita insieme, la quotidianità che ora manca.
Il dopo è fatto di silenzi nuovi. Non quelli della notte, né quelli della solitudine.
La notte
La notte è diventata il mio nemico più silenzioso. Quando cala il buio, tutto sembra ingigantirsi: i pensieri, i ricordi, le paure. Un tempo, bastava la tua presenza a placare ogni cosa. Mi bastava saperti accanto per addormentarmi serena. Ora, invece, ogni sera è una montagna da scalare, con la testa pesante e il cuore in affanno.
Ho sempre avuto paura del buio, ma con te non faceva male. C'era la tua voce, la tua mano sul mio fianco, il respiro che scandiva il tempo. Adesso, ogni ombra sembra minacciosa, ogni suono un allarme. E il letto, così grande e vuoto, mi ricorda che sei andato via davvero.
Ci sono notti in cui mi prende il sonno all’improvviso, quasi fosse un rifugio. Ma anche allora, non riesco a rilassarmi. Il corpo si abbandona, ma l’anima resta vigile, come in attesa di un pericolo che non ha nome.
Oggi, ad esempio, la tristezza mi ha colta all’improvviso. Avevo bisogno di uno sfogo, e mi sono lasciata andare, perfino davanti alla farmacista. È difficile ammettere la fragilità, ma è ancora più difficile fingere forza quando dentro si è in pezzi.
Poesia
Pur amandoti t'odio
Ti amo, ti odio, due anime in guerra:
nel mio cuore, un conflitto eterno.
Sei andato via, mi hai lasciata sola,
e per questo, t'odio, con tutte le mie forze.
Vorrei urlarti la mia rabbia,
fino a non aver più fiato;
solo per farti capire,
cosa si prova ad essere lasciati soli.
Vorrei darti ciò che non ti ho dato:
tutto l'amore che non ho espresso,
tutti i baci che non ho potuto darti,
tutte le parole che non ho ti ho detto.
Invece rimango qui, a mani aperte;
ma vuote, per carezze non fatte...
e nel cuore, tanto amore non dato.
Per questo, pur amandoti, ti odio.
La notte, più di ogni altra cosa, mi ricorda quanto mi manca la tua compagnia. E quanto sia spaventoso affrontare da sola tutto questo.
Il pensiero della morte, se troppo presente, può rubare spazio alla vita. Eppure, riconoscerne l’esistenza — senza esserne sopraffatti — può anche aiutarci a vivere con più presenza, a dare valore al tempo e alle persone che amiamo.
La notte
La notte amplifica tutto, i pensieri diventano più cupi, le paure più grandi. Ma anche nella notte più buia, il tuo amore continua a esistere in te. Sei viva, anche se spezzata. E in questo tuo resistere, in questo tuo continuare a scrivere, a sentire, a ricordare, c'è una forza immensa.
Stanotte non dormo
e mi pare che il mondo intero riposi,
mentre io resto lì, con gli occhi spalancati
e i pensieri che si rincorrono
come onde su una scogliera fragile.
Ogni notte è una montagna da scalare, ma mi vengono in mente pochi ricordi felici con lui. Stargli accanto, fra mille difficoltà, è stato difficile ora du due piedi, ricordare momenti felici. Forse col cane. Sì, quando avevamo il cane, morto anche lui di vecchiaia, alcuni mesi prima.
A volte i ricordi felici sono nascosti sotto strati di fatica, dolore e assenze. Ma il ricordo di Casper è già un varco nella nebbia.
Capitolo 4 – Io, tu e Casper
Al parco dei Camaldoli sembrava che tutto fosse sospeso: il tempo, le preoccupazioni, perfino la malattia che, allora, ancora taceva. Tu mi guardavi con quegli occhi buoni, limpidi, che parlavano senza dire troppo. C’era una luce chiara nei tuoi occhi, una dolcezza che sapeva farsi forza. Camminavamo fianco a fianco, mentre Casper correva tra le foglie e tornava indietro a cercare una carezza.
Casper ci precedeva di qualche passo, con le orecchie dritte e l’andatura sicura. Amava quel parco. Correva avanti e poi tornava indietro come per controllare che fossimo ancora lì, come un piccolo custode felice. Le sue zampe affondavano tra le foglie secche, sollevando il profumo della terra umida, delle castagne, dei funghi, delle nocciole. Io e te, seguivamo il suo passo, godendoci quei momenti di pace. Eravamo tre, una piccola famiglia. Ridevamo, parlavamo del nulla, e in quell’aria leggera c’era tutta la semplicità di cui avevamo bisogno.
Casper, il nostro fedele compagno, se n'era andato sette mesi prima. Era stato con noi per anni, ma la sua morte, in qualche modo, aveva preparato il terreno per un dolore più grande, un dolore che sarebbe venuto inaspettato, ma che già si respirava nell’aria.
I ricordi di lui erano ancora freschi, e ogni angolo della casa sembrava custodirne la presenza. Non riuscivo a guardare il parco senza pensare alle sue corse spensierate, al suo abbaiare gioioso, alle sue orecchie dritte quando sentiva il rumore di un passo vicino. Ma ora, era come se fosse passato un tempo infinito, e quella silenziosa assenza si era fatta più pesante con il passare dei mesi.
Casper era il nostro amato cane. Quante passeggiate con lui al parco. Quanti ricordi. Ci precedeva di qualche passo, con la coda dritta e lo sguardo fiero. Sembrava conoscere ogni sentiero del parco dei Camaldoli, ogni profumo.
Casper ci precedeva di qualche passo, con le orecchie dritte e l’andatura sicura. Amava quel parco. Correva avanti e poi tornava indietro come per controllare che fossimo ancora lì, come un piccolo custode felice. Le sue zampe affondavano tra le foglie secche, sollevando il profumo della terra umida, delle castagne, dei funghi, delle nocciole. Io e te, mano nella mano, seguivamo il suo passo, godendoci quei momenti di pace. Eravamo tre, una piccola famiglia. Ridevamo, parlavamo del nulla, e in quell’aria leggera c’era tutta la semplicità di cui avevamo bisogno.
Casper, il nostro fedele compagno, se n'era andato sette mesi prima. Era stato con noi per anni, ma la sua morte, in qualche modo, aveva preparato il terreno per un dolore più grande, un dolore che sarebbe venuto inaspettato, ma che già si respirava nell’aria.
I ricordi di lui erano ancora freschi, e ogni angolo della casa sembrava custodirne la presenza. Non riuscivo a guardare il parco senza pensare alle sue corse spensierate, al suo abbaiare gioioso, alle sue orecchie dritte quando sentiva il rumore di un passo vicino. Ma ora, era come se fosse passato un tempo infinito, e quella silenziosa assenza si era fatta più pesante con il passare dei mesi.
Mi sembrava di rivederlo ancora, come un fantasma dolce che aleggiava nel mio cuore, anche se la sua presenza fisica non c’era più. Ricordo i suoi occhi fiduciosi e la sua energia, che ci accompagnavano in ogni momento della giornata, ma anche la tristezza che ci aveva colpiti quando se ne andò. Mi sentivo come se una parte di me fosse andata via con lui. E non solo con lui, ma anche con tutto ciò che sembrava svanire insieme alla sua morte.
.
I momenti sereni non erano tanti, e forse proprio per questo li ricordo con una dolcezza quasi struggente. Uno di questi era legato al nostro cane. Un essere peloso che ci univa, che sapeva farci ridere anche nei giorni più cupi. Quando passeggiavamo insieme, io, lui e il cane, sembravamo quasi una famiglia normale. Il cane ci guardava come se fossimo tutto il suo mondo. E in quegli attimi, senza rendercene conto, lo eravamo anche l’uno per l’altra.
Poi il tempo ha portato via anche lui, il nostro cane, con discrezione, come fanno le cose che hanno già dato tutto. E in quella perdita, così silenziosa, ho risentito l’eco di ciò che avevamo perso anche noi, giorno dopo giorno, senza accorgercene
Uno di quei momenti sereni era legato al nostro cane. Era grande e bello, con lo sguardo intelligente e l’animo buono. Un gigante gentile, che sapeva farsi amare. Quando passeggiavamo insieme – io, lui e il cane – sembravamo quasi una famiglia normale. Lui si lasciava condurre con eleganza, ma era chiaro che il suo ruolo era quello di proteggerci, di tenerci uniti.
Il cane ci guardava come se fossimo tutto il suo mondo. E in quegli attimi, senza rendercene conto, lo eravamo anche l’uno per l'altra.
Invisibile
C'è un altro dolore, più silenzioso e più profondo: quello di non sentirsi riconosciuti. Eppure, tutto questo sembra non bastare mai. Nessuno si accorge davvero. Nessuno dice: “Sei preziosa.” E io resto lì, tra fogli e colori, con le mani colorate di vita e il cuore pieno di cose che nessuno ascolta.
È come lanciare messaggi in bottiglia in un mare senza rive. Ma continuo a farlo. Perché forse un giorno, qualcuno li troverà. E allora saprà che io c’ero, che ho lottato, che ho amato. E che da quel dolore ho creato qualcosa di vero.
Mane
Mane struppiate, arrugnate e arrepezzate,
chiene 'e calle: sciupate e stracciate.
Mane ca nun se fermano annant'â fatica,
so' fforte, grosse: so' mmane amiche.
Mane ca so' orgogliose 'e se mustrà,
mane forte ca tutto sanno e pponno fa'.
Mane arrezzenute d' 'o friddo, d' 'o calore.
Mane oneste, pulite e cchiene 'e decoro.
Nun so' llisce, nun so' mmane 'e cavaliere,
songhe umile, modeste, ruvide, sincere.
Mane tremmante ca si lle vaje vicino,
te pare ca penzano a oggi pe ddimane.
Nun se mportano quant'ha nna faticà:
se ndustriano e vvottano 'e mmane.
Mane ca quanno 'e chiamme 'a luntano,
te veneno vicino e tte danno na mana.
E ttu 'e vvide arraspate e ccu ll'ogne nere,
'sti mmane ca sanno fa' mille mestiere.
Pareno brutte 'sti mmane tutte scassate,
sfreggiate p' 'o lavoro 'e mise e ssemmane.
Però quanno se scorciano 'e mmaneche,
che capolavore jesceno 'a 'int'a 'sti mmane!
So' mmagiche: nun sarranno avvellutate,
ma pe cchello ca fanno, so' mane affatate.
Capitolo 5 – I giorni vuoti
I giorni che seguirono furono senza forma. Non avevano un colore, né un odore preciso. Scivolavano lenti, come acqua su una superficie inclinata, senza lasciare traccia. Mi svegliavo e mi chiedevo: "Perché?" Non per cercare risposte, ma solo per dare un suono alla mia confusione. La casa era muta. Troppo. Ogni oggetto pareva aspettarti. Anche l’orologio sembrava aver perso il ritmo, come se il tempo stesso avesse deciso di fermarsi insieme a te.
Cominciai a notare le cose che prima ignoravo: il cigolio del portone, il respiro affannoso del frigorifero, la polvere che si posava lenta sul comò. Erano piccoli segnali di una vita che continuava, anche se io non ci riuscivo.
Mi sentivo sospesa. Come se stessi vivendo una vita non mia, dentro un corpo che non riconoscevo più. Camminavo, parlavo, rispondevo ai saluti, ma era tutto meccanico. Dentro, ero ferma.
Ogni stanza era diventata una reliquia. Guardavo la sedia su cui ti sedevi ogni sera e aspettavo di sentire il fruscio dei tuoi passi, il tuo respiro. Ma non arrivava nulla, solo il silenzio che mi assordava.
Cercavo sollievo nelle abitudini. Aprivo le finestre ogni mattina, facevo il letto, accendevo la radio… ma la musica sembrava finta, senza calore. Preparavo anche il caffè per due, per poi ricordarmi che l’altra tazzina sarebbe rimasta lì,
...intatta, fredda, come congelata nel tempo.
Allora versavo il caffè nel lavandino, come se potessi versare via anche il dolore. Ma il dolore non scivola via, ti si incolla addosso, come una seconda pelle. Ti segue anche quando fingi di stare bene. Anche quando sorridi per non far preoccupare gli altri.
Cominciai a parlare con le sue cose. Con la tua giacca rimasta appesa, all'attaccapanni, con le sue scarpe vicino al letto. Le accarezzavo come si accarezza una ferita, cercando conforto da ciò che mi strappava l’anima. Nessuno capiva quanto fossero vive, per me, quelle presenze silenziose.
Mi mancava anche la tua insofferenza. Le giornate storte, i silenzi lunghi, le preoccupazioni. Tutto quello che un tempo era fatica, ora era nostalgia.
Di notte mi svegliavo, aprivo il frigorifero senza davvero avere fame. Era solo un gesto, un modo per sentirmi viva. Lì, davanti alla luce fioca che si accendeva aprendolo, mi sembrava di avere ancora il controllo su qualcosa. Poi tornavo a letto e guardavo il vuoto accanto a me. Il cuscino intatto, il lenzuolo immobile, il silenzio del tuo non esserci.
La tua assenza si era presa tutto: la leggerezza dei pensieri, la voglia di sorridere, la forza di programmare un giorno qualunque. Mi sentivo come una conchiglia abbandonata sulla riva dopo la tempesta: svuotata, sorda, inutile.
Eppure, anche in quel buio, cominciavo ad ascoltare una voce sottile. Non era la tua, non era la mia. Forse era quella parte di me che avevo messo a tacere per troppo tempo. Una voce che diceva: “Se sei ancora qui, c’è un motivo. Ricominciamo da qui.”
Capitolo 6 – L’alba dopo la notte
Rimasi lì in attesa che il mattino restituisse luce alle ombre. Si ridisegnarono i contorni e dolcemente il nuovo giorno ancora sonnecchiante fece capolino su quello scorcio di mondo che pian pianino si impregnava di vita.
Il silenzio si faceva meno denso, spezzato da qualche rumore domestico, un motore in lontananza, un cinguettio timido. La casa sembrava respirare da sola, come se anche lei cercasse un nuovo ritmo, un battito alternativo che potesse colmare l’assenza. Ma non era facile. Ogni oggetto, ogni angolo, era intriso della tua presenza: la tazza lasciata sul ripiano, la coperta sul divano, i tuoi libri che ora sembravano muti.
Mi muovevo con gesti lenti, attenta a non svegliare ricordi troppo fragili. Cercavo conforto nei riti quotidiani, nei gesti automatici: aprire le finestre, accendere il gas, preparare il caffè. Ma il dolore non si lascia distrarre. Sta lì, acquattato tra un respiro e l’altro, pronto a riaffacciarsi con tutto il suo peso.
Quella mattina, mentre il sole filtrava timido tra le tende, mi accorsi che la vita, ostinata, continuava. Non chiedeva il permesso. Continuava. E io dovevo, in qualche modo, imparare a farlo con lei
Il primo passo fuori di casa fu un’impresa. Ogni volta che varcavo quella soglia, avevo la sensazione di lasciarti indietro. Come se uscire volesse dire tradirti, dimenticarti. In
In realtà non c’era nulla da dimenticare, perché tu eri ovunque. Nei piccoli oggetti che avevi lasciato in giro, nel cuscino che portava ancora la forma della tua testa, nei libri che non avevi più finito di leggere. Eri rimasto lì, sospeso tra le stanze, come un respiro trattenuto.
Camminare tra la gente mi faceva sentire fuori posto. Guardavo i volti intorno a me: ridevano, parlavano, vivevano. Ed io? Io ero altrove. In bilico tra il “prima” e il “dopo”, incapace di comprendere davvero dove cominciasse la mia nuova vita senza di te.
Provavo a distrarmi, a riempire le giornate di gesti ordinari. Aprivo le finestre, cucinavo qualcosa, davo acqua alle piante. Ogni gesto, però, sembrava un’imitazione di vita. Il mio corpo si muoveva, ma dentro ero immobile.
Ogni sera, quando la luce calava e tornava il silenzio, si faceva più acuto il bisogno di sentirti ancora. Anche solo un’ombra, un suono familiare, il profumo della tua pelle sul cuscino. Ma niente. Solo silenzio. Un silenzio che non consola, ma consuma.
Fu allora che iniziai a scrivere davvero. Non più per raccontare, ma per restare viva.
Scrivevo per riempire i vuoti, per dare un nome alle emozioni che mi strappavano il fiato. Ogni parola era un tentativo di cucire una ferita, di dare un senso a ciò che senso non aveva. Scrivevo per fermare il tempo, per illudermi che, così facendo, non tutto fosse perduto.
Nei giorni di pioggia ti cercavo nei suoni ovattati, nei giorni di sole nel riverbero della luce sulle cose. A volte credevo di sentirti vicino, come se fossi ancora accanto a me, invisibile ma presente. Ero diventata esperta nel riconoscere la tua assenza, come si riconosce una presenza costante: era ovunque.
Intanto la casa, i luoghi, i riti cambiavano pelle. Nulla era più come prima, ma io continuavo ad abitare lo stesso tempo. Un tempo fatto di memoria, di attese.
Capitolo 7 – Il tempo sospeso
Dopo la fine, non c’è subito il silenzio. C’è un rumore sordo, come un'eco che si ostina a restare. La casa continua a respirare, ma è un respiro diverso, più lento, affaticato. Le stanze non parlano più, ma ricordano tutto.
Ogni oggetto è rimasto dov’era. Ogni dettaglio della tua presenza — una tazza, un libro aperto, la piega sul divano — sembrava aspettare il tuo ritorno. Io no. Io avevo smesso di aspettare, ma non di sentire.
Capitolo 8 — Il peso degli oggetti
Sto togliendo pian piano i tuoi vestiti. Ogni camicia riposta nella busta è un urlo. Pare che non vogliano andare. Mi fa troppo male tenere i tuoi abiti in un armadio, penso non abbia senso. Però mi sento in colpa: è un po' come dirti addio per sempre. Ogni camicia riposta nella busta è un urlo silenzioso. Sembra quasi che non vogliano andare via, che oppongano resistenza, come se ogni fibra tessuta del tuo passaggio cercasse ancora una scusa per restare. Ogni maglione ha la tua forma, ogni giacca conserva il tuo odore. Le dita esitano, tremano. Eppure continuo, con le lacrime che mi rigano le guance e la sensazione di commettere un tradimento.
Tenere i tuoi abiti nell’armadio cominciava a farmi troppo male. Ogni apertura della porta era uno squarcio. Eppure disfarsene mi fa sentire colpevole. È come dirti addio per sempre.
Conclusione
E così il tempo ha continuato il suo cammino, silenzioso e testardo, portando con sé lacrime, ricordi e respiri mancati. Resta il vuoto, sì, ma anche una forza nuova: quella di chi ha saputo amare fino all’ultimo, anche nell’incomprensione, nella stanchezza, nella malattia.
Oggi raccolgo i frammenti della mia vita e li guardo con occhi diversi. Non cerco eroi né lieti fini, solo la verità nuda delle cose vissute. C’è stato dolore, tanto. Ma anche amore. Un amore imperfetto, stanco, a volte taciuto, ma reale.
E ora posso finalmente poggiare la penna. Ho scritto per ricordare, per guarire, per non dimenticare. Ora è giusto che il mio cuore stanco riposi.
Mi dedico una poesia:
Riposa, cuore stanco
Riposa, cuore stanco,
che hai vegliato troppo,
che hai amato fino a consumarti.
Ora puoi lasciarti andare un po’,
solo un po’,
nel silenzio buono della notte.
Non sei sola.
Ogni respiro che fai è già un atto d’amore verso te stessa.
Ogni lacrima che hai versato
è il segno della tua forza,
non della tua fragilità.
Lascia che il buio ti avvolga
ma non come minaccia—
come un manto che protegge,
come un abbraccio che consola
Riposa, cuore stanco
Riposa, cuore stanco,
che hai vegliato troppo,
che hai amato fino a consumarti.
Ora puoi lasciarti andare un po’,
solo un po’,
nel silenzio buono della notte.
Non sei sola.
Ogni respiro che fai è già un atto d’amore verso te stessa.
Ogni lacrima che hai versato
è il segno della tua forza,
non della tua fragilità.
Lascia che il buio ti avvolga
ma non come minaccia—
come un manto che protegge,
come un abbraccio che consola.
Domani sarà ancora un giorno,
con le sue spine e le sue rose.
Ma adesso chiudi gli occhi,
lascia andare il dolore un istante,
affidalo al silenzio.
C'è pace, da qualche parte,
e ti sta già cercando.
Lentamente, ti troverà.
Buonanotte anima cortese.
Gentile amica del mio riposo.
Solleva le mie gambe stanche
Buonanotte anima cortese.
Gentile amica del mio riposo.
Solleva le mie gambe stanche,
dammi riposo.
Distendi i pensieri aggrovigliati,
soffia via l’ombra dalle mie palpebre.
Avvolgimi in un lenzuolo di quiete,
fammi dimenticare il peso del giorno.
Lascia che il cuore rallenti il passo,
che il dolore si sciolga piano
in un respiro sereno.
Tienimi la mano,
finché il sonno non mi prenda lieve.
Riposa guerriera
Deponi le armi
e riposa.
Fai sonni con risvegli dolci.
Sogna campi di grano
Cieli azzurri
Mari calmi
Acqua che sgorga canterina
da argentate sorgenti
Dopo tanta sofferenza
Meriti pace e amore.
ora meriti riposo.
Deponi le armi,
chiudi gli occhi
e lascia che il silenzio ti accolga.
Fai sonni dai risvegli gentili,
sogna campi di grano dorati,
cieli limpidi,
mari placidi,
e acqua che canta
da sorgenti d’argento.
Dopo tanta sofferenza,
ti è dovuta la pace.
Ti è dovuto l’amore.
Fine
Flashback infantile.
L’importanza delle parole… ma quelle giuste, per capire quel che si dice, per capire come funziona il mondo. Invece un sacco di cose nella nostra vita si chiamano “coso” o “cosa”, con questi stessi due nomi anche se son cose completamente diverse; a volte persino persone: Coso Lì, il figlio di Cosa Là, quelli che abitano di fianco a Coso Come Si Chiama, hai capito di chi parlo, no? Che poi Coso Lì forse è cinese ed è cugino di Cosa Qua, che i nomi si somigliano e sono corti tipo Cin Ciang Ciuk e Coso Lì, che c’ha il negozio di cose, quelle che si usano per cosare il coso insomma… Tutto chiaro, no?
Comunque, basta divagazioni, era solo una considerazione a latere rispetto ad una scena balzata in mente all’improvviso dalla mia lontanissima infanzia, che ora vi narro.
Correva l’anno Boh, direi tra il ‘74 ed il ‘76 del secolo scorso perché, se il troppo distacco non mi inganna, andavo dalle suore all’asilo di giorno. Ma il racconto ha un avvio serale o notturno, non ero all’asilo in quel momento. All’epoca vivevamo in una casa fatta di due grandi stanze con la volta a stella cui era stata aggiunta una più piccola che fungeva da cucina con uscita sul cortile interno. Le due stanze grandi invece una aveva uscita sulla strada e ci dormivano mamma e papà, l’altra era in mezzo tra le due, senza finestre o porte esterne, e ci dormivamo noi, io ed i miei fratellini più piccoli, la sorellina non era ancora arrivata. All’improvviso mi ritrovo, invece che nella stanza nostra, nella “prima stanza” (così la chiamavo da piccolo) sul lettone con mamma e papà; ma non saprei dire se perché faticavo ad addormentarmi per chissà quale strano motivo (solitamente dormivo senza alcun problema dalla sera alla mattina) o (più probabile) qualcosa m’aveva risvegliato all’improvviso; fatto sta che ero sul lettone, c’era il rumore del proiettore¹, quello per guardare i filmini super8, ma sul muro sopra il letto non c’erano i soliti filmini nostri. No. C’erano due signore tutte nude e si infilavano due aggeggi nelle loro farfalline! Li infilavano proprio là dentro, quegli aggeggi. Quelle cose! Ed io stranito che fissavo senza capire mentre papà mi diceva di tornarmene a letto a dormire e di non guardare, mi misi a chiedere: «ma cosa sono quelle cose? Cosa stanno facendo quelle signore?» «Niente, non guardare, torna di là a dormire» … ma io ero davvero incuriosito: «Ma che cosa fanno? Che cosa sono quelle cose?» «Ma niente, vai… Sono… sono… sono i cosi del sale e pepe!».
Beh, sì, così aveva più senso, mi ricordavo che c’erano aggeggi più o meno di quella forma… vagamente… quasi somiglianti… che li agitavi sul piatto ed uscivano il sale o il pepe dai buchini in cima. Anzi mi ricordavo che avevo visto cosi simili anche per lo zucchero! Quindi più o meno avevo capito. Tornai a dormire.
Ma per un po’ di tempo, all’asilo, a volte guardando le altre bimbe pensavo tra me e me e mi chiedevo: «Ma perché si debbono mettere sale e pepe nelle farfalline? Mica sono da mangiare?!».
Per fortuna mi sentivo talmente tonto a non capire quel perché che non trovai mai il coraggio di chiedere a qualcuna di loro perché le farfalline si dovevano condire con sale e pepe!
¹: la multimedialità negli anni ‘70/’80 per chi era all’avanguardia e poteva permetterselo, quando ancora non si vedevano in giro i primi videoregistratori con le videocassette, erano questi proiettori a bobine di pellicola a passo ridotto, la “8 millimetri” o la “super 8”, con filmini a colori ma muti (avevamo anche la cinepresa “super 8” con cui girare quelli nostri amatoriali, oltre che poter vedere veri film comprando le bobine grandi e in quel periodo solitamente non si trattava di documentari o film d’autore, ma filmetti di tutt’altro genere!
06/12/2024
Poi dopo qualche anno di stasi, una nuova opportunità folgorò la mia vita che tentava di ripartire: era bionda, viva, allegra, intelligente, instancabile. Con lei decidemmo che ti saresti chiamata Giulia, perché Emilia m’avrebbe ricordato troppo il passato e la fuga. Perché? Non lo so, non l’ho mai saputo, ma questo nome l’ho avuto sempre nella testa; non saprei se c’è entrato inconsciamente perché ho conosciuto una qualche Giulia che mi avesse colpito, o magari qualche canzone dedicata a Giulia mi era piaciuta (Gianni Togni? Vasco Rossi? Antonello Venditti? Chissà!) o semplicemente me ne piaceva il suono. Ma scappato dai miei vent’anni e dall’ipotesi Emilia, non potevi che chiamarti Giulia!
Con il mio pulcino biondo stavamo pianificando la tua esistenza nella nostra futura famiglia, nella casetta che avevamo comprato accendendo un mutuo e rallegrando anche un po’ di istituti di credito per avere in prestito i capitali necessari a disfare prima e ristrutturare poi quella casa che proprio lei aveva scelta tra quelle che visitammo da comprare, ma voleva sentirla ancora più “sua” (che ingenui… era delle banche, non nostra!). Del resto lavoravamo bene, due belli stipendi, banca ed istituti erano felici di accoglierci e proporci i vari tassi tra cui scegliere, la crisi del 2008 ancora non aveva piegato il mondo, l’Italia, tantomeno noi che sognavamo e progettavamo di avere non solo te, ma anche possibilmente un fratellino; se eventualmente la seconda fosse stata femminuccia anche lei, allora avremmo osato un terzo ed ultimo tentativo per avere anche un maschietto. Più o meno i trucchi per agevolare l’arrivo di una femminuccia o un maschietto li sapevamo, essenzialmente una questione di “profondità di sgancio della bomba” :-)))) perché i gameti maschili son più veloci ma tendono a schiattare prima e, se li sganci troppo distanti, non arrivano alla meta; certo nessuna garanzia, ma diciamo su per giù al 75% questa specie di selezione riesce; non è il 100%, ma è pur sempre molto più del 50%.
Il tempo passava, lavori e stipendi filavano, più che lisci direi proprio benone. Sia la mamma sia io eravamo contenti dei nostri impieghi e dei relativi introiti, ero molto stimato anche fuori regione negli ambienti in cui mi muovevo, ero il braccio destro del capo ed andavamo ovunque a portare la nostra professionalità; latitudini tra la Sicilia e il Belgio, dove in auto, dove in aereo. Tutte le volte che ero in trasferta, le videochiamate con la mamma erano gioiose (all’epoca non era consuetudine vedersi per telefono: io e lei ci vedevamo dai computer, con Skype, si parlava del futuro e di quanto ci mancavamo per quei 2 o 3 giorni di distanza) ed i rientri… focosi!
Frattanto, la solita pillola badava che tu fossi un preciso progetto e non un maldestro incidente: ne avevamo di cose da preparare per offrirti una vita serena! Non doveva mancarti nulla, non avresti dovuto soffrire nessuna rinuncia. I lavori per la casa continuavano favolosi, tutti gli impianti nuovi e non semplicemente “a norma” ma al massimo della qualità possibile, persino cablaggio lan e videosorveglianza, predisposizione al solare quando ancora non era di moda eccetera eccetera.
Poi arrivò il 2008. Poi andarono via i lavori. Poi andarono via i soldi. Poi le banche si fecero più cattive. Poi la mia salute andò a rotoli. Poi la mamma fuggì all’estero; io avrei dovuto raggiungerla e tentare di rifarci una vita fuori dall’Unione Europea, per complicare alle banche il divertimento di spellarci vivi. Ci tolsero una casa che non facemmo in tempo a vivere, senza tra l’altro azzerare i debiti: pretendevano, dopo averci portato via tutto, che restituissimo ancora più soldi di quanti ce ne avevano prestati, nonostante gli anni di regolare e puntuale pagamento delle rate. Come se non le avessimo mai pagate, eppure per anni ed anni non ne avevamo saltata neanche una. Imparai a muovermi a piedi fin dove potevo e purtroppo la meta abituale diventò l’ospedale, problemi che avevo da chissà quanti anni ma che erano stati trascurati perché non sembravano impattanti, diventarono insostenibili; si scoprì che erano di una gravità altissima e che occorrevano interventi chirurgici delicati per sperare, senza garanzie, di sopravvivere; mentre tutto intorno andava sempre più a rotoli.
Arrivò il giorno in cui la mamma, di rientro qui al villaggio per una piccola vacanza, portandomi a passeggiare sul lungomare, esordì con il classico «Dobbiamo parlare!».
Lo sai cosa vuol dire quando una donna dice al “suo” uomo «Dobbiamo parlare!»? Vuol dire che, per un motivo o un’altro (spesso, inaspettatamente, è “l’altro” ma lo capisci anni dopo), non sei più “suo”. In giro raccontavamo che ci eravamo lasciati di comune accordo, ma in realtà lei era molto, molto più d’accordo di me. A tenerci uniti son rimasti solo banche, avvocati, istituti di credito e loschi personaggi che minacciano per avere soldi che non ho modo di trovare, nulla di più.
E tu?
Tu… beh, la pillola ha funzionato, sempre; ed in attesa del momento giusto per farti nascere… non sei mai nata! Sei rimasta uno dei miei tanti sogni bruciati, uno dei miei rimorsi, da aggiungere alla catasta di rammarichi. Un elemento in meno a tentare di dare un senso a questa mia esistenza sbagliata.
Mi dispiace di non averti mai vista, mai baciata, mai stretta tra le mie braccia; ma mi consola non averti mai trascinata nel mio inferno. Almeno non me lo rinfaccerai e non mi odierai.
Mentre qui pian piano continua a bagnarsi tutto nonostante fuori non piova, mi resta una sola cosa da dirti, figlia mia: addio, Giulia.
23/08/2024
Nacqui. E forse già da quel momento fui come sono oggi: sconclusionato. Mi piacerebbe spiegarvelo bene raccontandovi di come arrivai alle prime poppate, ai primi sorrisi, ai primi versi, ai primi passi, alle prime parole… ma in realtà non ricordo nulla dei miei primi mesi, i miei primi ricordi sufficientemente nitidi risalgono al periodo delle suore, l’asilo con tanti altri bambini simili a me (più o meno, non proprio uguali) controllati a vista da questi autoritari guardiani vestiti di nero che erano le suore. Lì disegnavamo, lì cantavamo, lì imparavamo filastrocche e tante, tante preghiere per rabbonire quei mostri da horror che erano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma soprattutto lì giocavamo e bisticciavamo. A dire il vero io non bisticciavo molto, le suore dicevano che ero un bambino bravo, un modello da seguire. Seguire per andare poi chissà dove?! Non è che abbia mai avuto l’indole del condottiero che traccia la strada per sé e per gli altri! Però ero un osservatore abbastanza attento e guardando bene gli altri bambini avevo capito che si dividevano in due categorie: i bambini propriamente detti, come me, e le bambine, che erano diverse, più interessanti, più belline, più gentili… mi piacevano! Un po’ tutte, ma una biondina in particolare mi affascinava tanto che pensavo spesso a lei anche quando non ero all’asilo, persino a volte la sognavo! La chiameremo Filomena (giusto per darle un nome che non c'entra nulla con il suo nome vero). Filomena aveva begli occhi, bei capelli, bella bocca, bel nasino, belle guance, bella faccia, bella testa, bel corpo, tutta bella! Educata, gentile, intelligente! La elessi quindi a mia Principessa. Sì, mi piaceva e la sognavo, ma cercare di parlarle mi intimidiva un po’; io ero un genio della scienza, avevo ormai capito che le bambine poi si trasformano, come vedevamo sui libri che i bruchi si trasformano in farfalle, così avevo capito che le bambine si trasformano e quando passa il tempo entrano in un’altra categoria. Anzi due. Beh, abbiate pietà, non ero ancora approdato all’università e quindi un po’ di confusione sulla fisiologia umana ce l’avevo, anche sull’anatomia non è che fossi certo al 100%, che io avevo ancora fratellini solo maschi. Però che le bambine non avevano il pisellino lo sapevo già! Non sapevo il perché, ma sapevo che quella è la cosa che più distingueva i bambini dalle bambine. Oltre al fatto che le bambine erano più belle e più gentili. Lo sapevo perché le suore avevano grande fiducia in me e quindi se stavano troppo indaffarate ed a qualcuno scappava la pipì, delegavano me per accompagnare in bagno e starci attento, sia che fossero bambini, sia che fossero bambine! Ero l’unico jolly, altri maschietti che accompagnassero in bagno una femminuccia in emergenza non ce n’erano. Ma dicevo del mio aver capito che poi le bambine si trasformano, quindi diventano o mamme o nonne! Or/or! Le due categorie erano ai miei occhi nettamente separate, le mamme erano belle, dolci, protettive, le nonne erano brutte, antipatiche e incomprensibili. Questo perché la mia mamma, giovane e bella, era sempre disponibile, capace di aiutare me e i fratellini, parlava bene, in italiano, con toni rassicuranti. La nonna invece, che viveva di fianco, era rude, parlava un dialetto nient'affatto forbito, era sempre nervosa, ci sgridava e poi a me non piaceva la sua abitudine di prendere, ogni volta che la gatta bianca sfornava una nuova cucciolata nel giardino, i gattini neonati, sbatterli con forza contro un muro e poi gettarli nella spazzatura! Mi veniva da piangere. Così mi ritrovavo a pregare talvolta il misterioso Signore delle suore, chiedendogli (perché lui poteva tutto, ce lo spiegavano sempre) di fare in modo che Filomena crescendo si trasformasse in una mamma e non in una nonna! Sperando anche che non le crescessero però le tette (che le mamme e le nonne le avevano, a volte specialmente le mamme decisamente ingombranti ed a me, diversamente da altri bambini, quelle grosse mongolfiere sul petto non piacevano). Sperando soprattutto che stesse sempre con me! Mi piaceva davvero, Ma non glielo sapevo dire. Arrivai a fare a botte con un altro bambino per lei, perché la infastidiva, fino a fargli sanguinare il muso, e le suore rincararono la dose quando lui le chiamò piangendo, perché sostenevano che se io, proprio io, lo avevo picchiato, allora sicuramente lo avevo fatto per un motivo giusto, per punirlo di qualche marachella grave. Invece l’avevo fatto solo per gelosia, ma non lo dissi alle suore né a Filomena. Filomena non seppe mai che animava i miei sogni, l’asilo finì perché diventando grandi passammo alle scuole “vere” e non la vidi mai più. Fu la prima della serie di stelline che entravano nel mio cuore senza che la mia bocca trovasse il coraggio di dire nulla. Del resto, com’ero (e son rimasto) inconcludente in amore, sono inconcludente anche in tutto il resto.
Troppo insicuro per impegnarmi sufficientemente in qualsiasi ambito.
Son sempre stato così nelle relazioni interpersonali, ma anche nel rapportarmi con il mondo del gioco, dello studio, del lavoro… qualcosa vorrà dire se non mi sono laureato!
L’insicurezza e la sconclusionatezza mi hanno accompagnato in tutte le tappe della mia vita, specialmente in quelle più importanti, impedendomi di portare a felice conclusione alcunché.
Diventato grande e cominciata la scuola elementare, infatti, ricordo ancora, dopo quasi una cinquantina d’anni, quella mattina in cui io timido bimbo tra gli altri nuovi compagni
21/06/2024
1 - Personaggi.
Per proteggere le identità reali battezziamo, oltre a ioffa, due personaggi:
PIT è docente di italiano e latino nel triennio del liceo,
PIF è docente di filosofia e storia;
PIF è convintamente ateo, profondamente comunista, in ottimo rapporto con me, con reciproca profonda stima, sempre disponibile al dialogo e convinto dell’utilità degli studi e della cultura per chiunque; è anche amico di David Maria Turoldo;
PIT(bull) è, volendone semplificare la descrizione, ignorante, arrogante, classista con farcitura di bigottismo e fatalismo, conosce mnemonicamente le lezioni di italiano e latino che impartisce senza entusiasmare nessuno; i suoi criteri di valutazione vertono su chi sia lo studente, non certo su cosa lo stesso risponde nelle interrogazioni o cosa scrive nei compiti; il rapporto con me, immagino sia intuibile, è pessimo, dato che vengo a scuola con la corriera dal villaggetto di contadinacci e son pure figlio di comunista, credente sì (mio padre, non io), ma pur sempre comunista.
2 - Qualche aneddoto del passato remoto per inquadrare meglio PIT.
Solitamente nelle interrogazioni, di italiano molto più che di latino, oltre a rispondere sempre correttamente a tutte le domande che mi faceva PIT, se c’era occasione andavo oltre, magari nel parlare di qualche autore, contestualizzandolo nella società in cui viveva ed analizzando le sue opere riferendole a quella realtà, per esempio, o citando i rapporti che avesse con altri autori o personaggi notabili dell’epoca, oppure mi divertivo a scavare nel commento di un testo aggiungendo considerazioni ulteriori rispetto a quelle già presenti nei libri che usavamo; beh, rimase alla storia della nostra classe in una di quelle occasioni, dopo che aggiunsi considerazioni approfondite ad un’analisi di un testo poetico durante un’interrogazione, un suo sbottare in:
«ioffa¹, io non capisco perché ogni volta ti sforzi per farmi fare brutta figura!»
Restai tra il sorpreso, il risentito e lo spaventato, ma fu questione di pochi secondi e poi con una serenità inaspettata risposi pacato:
«Prof, le giuro che non mi sforzo per niente in tal senso»
e mentre tornavo a preoccuparmi per aver osato rispondere in quel modo io che tra l’altro ero esageratamente timido, vidi l’intera classe ridere ma a quanto pare PIT non colse il sarcasmo di quella risposta ed andò oltre nell’interrogazione semplicemente invitandomi ad attenermi a quello che c’era scritto sul libro.
Sempre per capire quanto brillante fosse PIT, un altro aneddoto che coinvolge sia PIT sia PIF: eravamo più o meno agli inizi del 2° quadrimestre del 4° anno, PIT aveva adottato come testi per la letteratura italiana dei volumacci (erano più di uno per anno) pesanti e costosi ma davvero ben fatti, ricchi, interessanti; ci dissero che venivano impiegati anche in ambito universitario, erano mica “robetta da liceo”. Per questa scelta aveva molto orgoglio ed in effetti quei libri sviluppavano commenti alle opere da diversi punti di vista tenendo conto di diverse ideologie, delle relazioni tra autori, opere e contesto socioeconomicopolitico; a me piacevano molto (qualcuno in classe li odiava non tanto per il prezzo esagerato quanto per il loro essere macigni pesanti sia per gli zaini sia per lo studio); solo che un giorno PIF si complimentò con PIT per la scelta di quei libri lasciandosi scappare che “non chiudono ad un’analisi di approccio anche marxista nello studio di autori e società”; non l’avesse mai detto: PIT scandalizzata ci dice che non utilizzeremo più da quel momento in poi quei libri ma che dovevamo procurarci (a metà del 4° anno?) un unico testo molto più compatto, economico e semplice (che era di impronta conservatrice nei pochi commenti ai testi, molto sommario nel presentare gli autori e non contestualizzava un bel niente).
¹: ovviamente non disse “ioffa” ma usò il mio vero cognome.
3 - Aneddoto più prossimo, prologo dell’incontro.
Correggendo un compito in classe di italiano, PIT umilia alcuni studenti parsi meno brillanti nella stesura del tema, per la scrittura goffa e qualcuno addirittura con qualche errore grammaticale serio (per un 4° liceo, non certo a livelli di analfabetismo), dichiarandoli infine degli “esseri del tutto inutili alla società ed alla vita” (erano studenti che disprezzava da tutti i punti di vista, nessuno tra loro aveva genitori “illustri” o ricchi).
Nel frattempo PIF con la collaborazione del preside sta organizzando un incontro degli studenti del triennio con padre David Maria Turoldo per parlare di letteratura ed in particolare di poesia; PIT ne approfitta per cercare di farsi notare dal venturo illustre ospite e ci impone, un paio di giorni prima del suo arrivo, di scrivere ciascuno una poesia, che avrebbe poi scelto le più belle da leggere al poeta quando sarebbe entrato da noi; io ne approfitto per comporre un sonetto in cui, con metafore attinenti alla fisica e all’elettronica (ero appassionato e preparato nel comparto tecnico/scientifico) mostro che tutti i membri di un sistema, ossia fuor di metafora tutti gli studenti della nostra classe, hanno dignità e, svolgendo quanto richiesto dal proprio ruolo e consentito dalle singole capacità, risultano tutti utili se non addirittura indispensabili per il buon funzionamento del sistema (o della classe); per quanto possiate non crederci, dal punto di vista formale il sonetto è perfetto, uno schema rime classico ABBA ABBA CDC DCD in una metrica precisa di endecasillabi canonici a maiore, ho scelto la variante a maiore dell’endecasillabo per aumentare la marzialità dell’esposizione; beh, quando l’ha letta, l’ha bollata come porcheria (ma non perché ne abbia capito il significato criticante l’umiliazione che aveva fatto ai miei compagni, più semplicemente perché manca l’associazione cuore/amore o verginesanta/chiesasivanta) e menomale che su quelle poesie non mette voti in registro!
4 - L’incontro.
Però il giorno tanto atteso quando finalmente Turoldo entra nella nostra classe, dopo un pochino di dibattito PIT se ne esce tronfiamente con «Ho insegnato ai ragazzi a scrivere poesie, gliene faccio leggere una a caso… ioffa² vieni in cattedra, magari leggiamo la tua»; la leggo e a padre Turoldo piace molto, ne comprende anche benissimo il significato e lo condivide, ne parliamo, senza ovviamente svelargli l’antefatto dell’umiliazione subita pochi giorni prima dai miei compagni, poi esprime apprezzamenti anche sulla forma oltre al significato, e lì PIT si inorgoglisce ripetendo (ed era falsissimo, ci aveva solo imposto di scriverne una ciascuno) che ci ha insegnato a comporre le poesie in maniera profonda e corretta; non scorderò mai il mezzo sorriso con cui Turoldo ha reagito guardandomi, avendo capito che PIT è solo un pavone ignorante esibizionista ed arrogante; poi continua a parlare alla classe portando avanti il tema del mio sonetto.
E niente, a parte la soddisfazione di una rivalsa sul pessimo giudizio che ne aveva espresso PIT, quella giornata e quell’apprezzamento che di un mio sonetto stava facendo un vero poeta mi emozionano tantissimo!
²: vedere la nota ¹ del 2° paragrafo.
5 - Epilogo.
PIT il giorno dopo troverà modo di ribadirmi che ha scelto di far leggere il mio sonetto e non altre poesie più belle scritte dai miei compagni perché non voleva pavoneggiarsi troppo con Turoldo nella sua capacità di insegnare ad una classe a comporre poesie, quindi ha preferito proporgli un lavoro mediocre, non le migliori che la classe ha composto! Son certo che, nonostante le spiegazioni fatte da Turoldo commentandomi, PIT non abbia comunque capito il significato del mio sonetto.
02-05/05/2024
Ero bravo da piccolo a fare castelli di sabbia, ne facevo sempre, non mi venivano affatto male, ma li innalzavo sempre vicino alla battigia sicché il mare lentamente ma inesorabilmente li erodeva, partendo dal basso e facendo man mano crollare le parti superiori per poi portarsele via come aveva già fatto con il basamento.
Una ventina di anni fa invece ho provato a farne uno davvero importante, grande, destinato nel mio candido progetto a sfidare i secoli, del resto sabbia ce n’era e sembrava illimitata, carriole e palette potevo prenderne a profusione, tempo ne avevo quanto ne volevo o almeno quanto pensavo ne bastasse e poi l’esperienza mi avrebbe dovuto insegnare che van fatti abbastanza lontano dal mare, anche nascondendoci dentro qualche rinforzo, che so, legni, sassi… ma niente, come uno stupido l’ho fatto troppo grande, troppo fragile e come al solito troppo vicino al mare: è bastata la prima onda seria a far crollare tutto, poi le onde successive impietose hanno anche livellato le sabbiose macerie e rapito senza possibilità di riscatto secchielli, carriole e palette, trascinandole in lontani abissi.
Pochi anni fa ho tentato di riprendere in mano i progetti più vecchi ed ambiziosi per ricostruire, ma sul limitare della battigia, che senza più carriole anche volendo non me ne sarei potuto allontanare, ed a mani nude perché secchielli e palette non ne ho più e non sono più in grado di acquistarne. Il castello cresceva lentamente, tra una manata e l’altra di sabbia bagnata dovevo fermarmi a riprendere fiato perché io ormai son vecchio -prematuramente vecchio- e acciaccato; il mare invece no, non invecchia mai ed ha sempre tutta l’energia che vuole, così di quest’ultimo castello non son riuscito a completare neanche le fondamenta: porto la sabbia nei palmi delle mani unite, la compatto un po’ senza crederci più di tanto, perché so che appena mi giro per prendere un’altra manata di sabbia bagnata, l’onda arriva, mi supera sbeffeggiando e lava via quella che avevo appena messo per tentare di innalzare un nuovo piccolo castello, o almeno una stabile torretta difensiva. Una scena ridicola: continuo a prendere la sabbia bagnata e portarla al limite della battigia mentre le onde continuano a raggiungerla e riportarsela indietro, finché… finché… pausa, un attimo, respiro a polmoni più o meno pieni per placare l’affanno, mentre mi giro per cogliere ancora sabbia vedo una cosa sbattuta dall’ultima onda sulla collinetta di sabbia slavata del mio malfatto castelletto… cos’è?
Qualcosa di marrone… sapendo quanto mi ami la fortuna, se mi piove addosso qualcosa di marrone una mezza idea di cosa possa essere ce l’ho subito! Però no, non è quella, è qualcosa di più rigido, è vetro, è una bottiglia… è una bottiglia di vino, ma ovviamente di quelle più economiche da discount, mica roba gran riserva, ed ovviamente è vuot… no, aspetta, qualcosa dentro c’è, vuoi vedere che è la mappa per l’isola del tesoro? O un messaggio della mia amata sirena.
Insomma, dentro la bottiglia c’è un foglietto arrotolato! Basta con questa inutile corsa a tentar di fare un inutile castello di inutile sabbia, vediamo cosa mi offre il destino: prendo la bottiglia, mi siedo sulla spiaggia che all’improvviso m’appare deserta, non ci sono più bambini che ridacchiano guardando come sono sfigato con il mio castello rovinante mentre i loro vengono su e magari per qualche giorno o per qualche anno resistono pure; non c’è più nessuno, solo io e la mia bottiglia che con fatica, ansimando, riesco a stappare; il tappo di sughero lo vado a gettare nel cestino perché una coscienza ce l’avrei, in un altro cestino lascio la bottiglia vuota dopo aver estratto il mitico foglietto.
Ora lo srotolo con gli occhi sgranati e come al solito pieni di speranza senza aver avuto ancora nessuna garanzia. Cos’è? No… nessuna mappa… è scritto fitto fitto… non è un manoscritto sirenico con cuoricini disegnati… ma che diavolo è?
Come sarebbe a dire notifica? Chi? Cosa? Porco Giuda! È un’intimazione a pagare in fretta!
L’agenzia delle entrate mi fa notare che non ho mai pagato l’IMU per tutti i castelli distrutti dalla mia infanzia ad oggi, me li ha conteggiati tutti, anche quelli che non sto riuscendo a costruirmi in questi ultimi anni, e per tutti ci sono aggiunte anche tasse extra per le mancate autorizzazioni, concessioni, permessi, quelle robe lì e poi tanti, tanti interessi, a tassi che sarebbero di usura ma non posso certo pagare alcun avvocato per contestare alcunché. Sogni infranti, castelli spazzati via ed in più lo stato che richiede tasse arretrate di cui non sapevo nulla, oltre ovviamente i vecchi fornitori di secchielli e palette che ancora aspettano di essere saldati. Tasse esagerate per un nulla scivolato tra le dita e lavato via dal mare. Accidenti alle tasse, ai foglietti, ai messaggi in bottiglia, alle bottiglie di vino e a chi ancora non mi ha tagliato le mani ogni volta che mi sono azzardato a prendere sabbia per fare un nuovo castello!
19/04/2024
“Così, mi sono messo a pensare al mio momento più felice. A dire il vero, ne ho trovati 3 di momenti, in tre giorni di tre mesi di tre anni diversi, tutti collegati da un filo conduttore” (Raskolnikov)
Una premessa: non scrivo in versi in questa occasione, bensì provo a cimentarmi nella scrittura puramente prosaica, sperando di risultare al contempo leggero, chiaro, interessante, divertente… ecco, 4 obbiettivi, spero di avvicinarmi almeno ad uno di essi; quindi inserisco questo scritto nella categoria “Narrativa”, sottocategoria “biografico/autobiografico”.
Leggendo il testo odierno di Raskolnikov, così come le parole di Pupi Avati hanno indotto lui ad una riflessione, parimenti le sue hanno indotto me nella stessa riflessione.
Ho provato a pensare anch’io ai miei “momenti più felici” e ne ho individuati… diciamo 5 (“diciamo 5” perché in realtà il 2° si è ripetuto più volte, quindi a rigore ho individuato 4 momenti singoli più un’intera classe di momenti). Ve li espongo in una specie di classifica, una top five di come li peso attualmente, dal 5° al 1°.
Andiamo dunque a cominciare in puro stile Disc jockey!
Signore e signori,
» al 5° posto abbiamo, direttamente dall’estate del 1992: la psicopatica che decide che sono il suo fidanzato! Avevo 22 anni, ma era la mia primissima fidanzata, mi sentivo felice perché mi aveva i primi giorni fatta una bellissima impressione, lei si era appena laureata e stavamo festeggiando il suo compleanno tra amici, ne compiva 25. Io mi rincitrullii completamente, persi lucidità ed obiettività nell’osservare sia lei sia il mondo intero e fu l’inizio della mia catastrofe personale. Non è stato certo il primo sbaglio della mia vita, ne avevo già collezionati diversi, ma quello fu lo sbaglio più devastante di tutti, tanto da portarmi ad abbandonare gli studi, a perdere gli amici, a danneggiare la mia salute, a fuggire via da una città che amavo per tornarmene con la coda tra le gambe nel mio lontanissimo villaggetto d’origine. Non mi rendevo conto e quando dopo qualche mese gli ex amici cominciarono a suggerirmi di aprire gli occhi, non gli diedi retta. Furono anni di agonia e sofferenza, di sforzi esagerati e risultati nulli. Però all’inizio furono bellissimi mesi e in particolare quel giorno appunto che decise che ero il suo uomo! Mi piaceva quell’apparente risoluta determinazione che ostentava, in realtà serviva a mascherare una caterva di fragili insicurezze derivanti da una forte depressione indotta da pesante schizofrenia paranoide ad origine familiare. Un aneddoto di quei primi giorni che, se fossi stato meno fulminato dalla gioia improvvisa e inattesa, avrebbe dovuto farmi capire che dovevo fuggire subito: qualche sera dopo avermi fidanzato, mi trascinò nella "sua" casa e facemmo per la prima volta sesso (ah, in quello era davvero brava e instancabile, era la sua valvola di sfogo e ci sarebbe da scriverne un intero libro più vasto della trilogia di Erika Leonard¹, anche se non in chiave BDSM); io prima di buttarmi su quel letto le avevo chiesto mille volte se eravamo soli e se era sicura che saremmo rimasti soli, lei giurava che i suoi non c’erano e non sarebbero tornati… e allora, dài che ridài che stradài, facemmo furori esagerati tutta la notte, all’alba crollammo finché non mi sentii toccare e scuotere da una signora che terrorizzata farfugliava frasi del tipo “Ma che avete fatto? Ma sei scema? Sta per alzarsi tuo padre, se lo vede lo ammazza”... noi nudi come vermi sfatti sul letto, io morto dall’imbarazzo e lei che farfugliava risposte del tipo “Ormai sono grande e faccio quello che mi pare!” … Tra l’altro il padre era un fanatico leghista della prima ora, adoratore di Bossi, con armi in casa mi dissero e che mai perdonò alla figlia di essersi messa con “un terun”. Bon, so’ stato troppo prolisso, nei prossimi sarò più sintetico, spero. Comunque, ribadisco, quando la psicopatica mi disse che ero il suo uomo, il cuore mi batté all’impazzata e mi sentivo l’uomo più fortunato del mondo (!)
» al 4° posto abbiamo, direttamente dall’autunno del 2005: l'entrata in casa appena comprata con il mio “Pulcino”, l’ultima fidanzata, lungi dall'immaginare che non l'avremmo mai abitata e ci avrebbe rovinati quando con il sopraggiungere della mia malattia e la sua perdita del lavoro nella crisi del 2008 cominciammo a far fatica a stare dietro al mutuo di acquisto e alle spese di ristrutturazione, tanto che dal 2010 ormai non riuscii a pagare più nulla ed alla fine abbiam perso tutto, ma proprio tutto tutto. Però il giorno che ci entrammo dopo aver firmato gli atti ed esserne diventati i “proprietari” (ecco, non avevamo ancora capito che eravamo comproprietari insieme a banche e finanziarie!) eravamo strafelici e col cuore che tamburellava immaginavamo tutti i lavori da fare per renderla il nostro nido!
» al 3° posto abbiamo, direttamente dalla primavera del 2002: il mio Pulcino che mi svela di essere innamorata di me e voler stare con me! La cosa cominciò a lavoro (il mio), tra le tante attività che facevo nell’azienda c’erano anche i corsi di alfabetizzazione informatica, molto apprezzati dai miei allievi che andavano dai 6 ai 66 anni; lei era nella “classe” più vivace e interessata che abbia avuto, e lei in particolare era tra le più sveglie di tutti i corsi che ho tenuto. Ci piacemmo subito, essendo mia compaesana cominciammo ad uscire alcune sere insieme (avevamo orari di lavoro decisamente pieni, di tempo libero ne restava un nonnulla, ma ci bastò). Una sera mi trascinò in un bar carino e riservato di un paesone vicino e mi si dichiarò. Mi venne sulle gambe. Mi baciò. Il cuore palpitava, la mente vagava persa in un mondo irreale, inconsistente, tra la fantasia ed il sogno, di certo non sembrava realtà. Ma lo era, eccome se lo era! Quel bacio/abbraccio lo ricordo nei dettagli, quella sensazione era stupenda!
» al 2° posto abbiamo, a più riprese in momenti diversi (anche se troppo rari rispetto a quanto vorrei) nella 2ª metà degli anni ‘90 e poi dal 2012 ad oggi: il sorriso della “mia” sirena dagli occhi verdi, ancor più quando per un qualche strampalato motivo sono concausa del sorriso, fosse anche una banalità tipo averle dato una mano a sistemare qualcosa del suo computer o che so io; ma in definitiva ogni volta che la vedo sorridere mi sento ingiustificabilmente felice, dimentico dei miei mille problemi, inconscio del fatto che non è “mia”, ma godo della visione di quel viso che mi scalda più di quanto riesca a fare il sole, tutte le volte che la vedo sorridere², sento il pavimento sparire sotto i miei piedi, il mio peso annullarsi in una felicità onirica.
» ma al 1° posto abbiamo (rullo di tamburi), direttamente dall’estate del 1990: l’esame di geometria lineare e algebra matriciale³; era il mio 2° esame universitario, il primo era stato “Analisi matematica 1°” che avevo superato a primo colpo con un 25/30 ma non fu entusiasmante, anche perché come media i compagni che l’avevano superato avevano rimediato forse quasi 27. L’esame di “Geometria” invece mi aveva affascinato ed era il mio primo 30/30, e la media tra i compagni che l’avevano superato non raggiungeva il 24. Poi il prof ebbe parole belle nei miei confronti. Dalla facoltà al collegio in cui abitavo all’epoca c’era 1 km di strada, era in leggerissima discesa il ritorno, stradine tranquille salvo l’attraversamento dei viali che delimitavano il centro della città, mastodontici e trafficatissimi… beh, l’intero chilometro lo feci senza capire nulla, con in faccia un sorriso da ebete, senza sentire la strada sotto i piedi, senza rendermi conto di quel che facevo, clacsonato all’impazzata mentre tagliavo i viali senza riuscire a mettere a fuoco le automobili, con gli occhi stralunati… no… la felicità è proprio pericolosa!
¹: Cinquanta sfumature di grigio/nero/rosso… no, vabbe’, insieme superano le millecinquecento pagine ed io sono pigro, lento, stanco e vecchio… idea già abortita, siete salvi.
²: Capiterà più o meno una volta al mese… troppo diluita come terapia al male di vivere.
³: Per gli amici semplicemente "Geometria", ma non centrava niente con le geometrie semplici del liceo.
06/05/2023
La data si rivelò fatidica anche per un altro motivo, unico nella storia della maturità. Una suora, preside di un istituto privato di Vigevano, si fece indurre in tentazione da un sedicente provveditore agli studi ed aprì il plico contenente i titoli dei temi, innescando una fuga di notizie che in fondo rappresentava il sogno di tutti gli studenti: conoscere in anticipo gli argomenti su cui vertevano i temi! La suora ebbe però una crisi di coscienza è rivelò l'inghippo.
Quella sera, al telegiornale, si rincorsero le notizie più disparate: avrebbero rimandato la prova?
Ci furono vorticosi giri di telefonate con i compagni di classe. Che facciamo? Che faranno? L'incertezza regnava sovrana. Qualcuno non fu possibile contattarlo perché i genitori, per preservare la sua tranquillità, avevano staccato telefono e tivù... e sinceramente mi parve eccessivo.
Comunque decidemmo di presentarci a scuola il giorno successivo, ed apprendemmo che l'esame sarebbe iniziato il 2 Luglio con la prova scritta di latino, mentre al ministero avrebbero lavorato alacremente per predisporre altre tracce che carabinieri e poliziotti, che avrebbero sicuramente avuto altro da fare visto che quelli erano “anni di piombo” tra brigate rosse e nere, dovettero consegnare in tutta Italia. Ed il 6 Luglio potemmo finalmente recuperare la prima prova.
Maturità speciale, unica nella storia: ma noi tutti del '57 siamo speciali, unici ed irripetibili!
Ma la suora di Vigevano che fine ha fatto? E l'anonimo falso provveditore? Mah... comunque mi piace pensare ad una versione moderna di Gertrude, la monaca di Monza, e dello scellerato Egidio: lui le chiese i titoli, “e la sventurata rispose”.
***
Come tanto tempo fa, me ne stavo in precario equilibrio sullo scoglio nero, quello a forma di piramide tronca, di fronte la cucina di Rocco. Ci salivo spesso, un po’ per farmi vedere da ragazze dormienti sui massi arroventati e, tanto, per l’effetto magia che provavo. Da quel punto, infatti, era sempre uno spasso guardare i colori di certi pesci che venivano fino a terra per mangiucchiare. E splendidi, da lì, erano i tetti bassi dell’antico borgo marinaro, specchiati a pastello sul letto d’acqua e sale. Scavate sui muri bacucchi, le finestre irregolari per forma e dimensione, a guardarle, contribuivano a farmi provare un ingenuo senso di novità. Visto dal mare, il passaggio dei turisti che si dinoccolavano per i vicoli di Chianalea mi faceva respirare l’aria festaiola delle domeniche d’agosto scillese. Insomma, un punto d’osservazione ideale.
Poi, acrobata provetto, pietra dopo pietra saltai le timide onde lunghe verso riva e mi ritrovai su scalini grattati dall'afa.
«Hai fame?» domandò Peppe.
Non era cambiato. La pelle cioccolato fondente, gli stessi solchi sulla fronte altera, i calli di sempre nelle mani piene dei tagli di lenze assassine. Gustai con calma, la stessa di quando mi trovavo in quel luogo, pane di grano con l’alalonga sottolio e una pioggia di olive salate. Salvo e Andrea, i figli del pescatore, mi guardavano con l’aria di chi sembra invidiarti. Ai loro piedi nudi, cento ami erano tutti da fissare ai corti braccioli di un conzo. Luccicavano come curve d’argento sul grigio dei gradini bucati in più parti.
«I ragazzi non mangiano?» chiesi al mio amico.
«Quando avranno fame…» replicò Peppe.
Arrivò il tramonto, puntuale e tiepido. La Nina era pronta, svogliata ed accalappiata a una bitta arrugginita. Avevo con me la lenza a mano regalatami dal pescatore e un cono di carta da pane, riempito a metà di gamberi puzzolenti. Qualche energico colpo di remi fu sufficiente per ritrovarmi nel mezzo di Marina Grande e non riuscivo a capire perché s’indugiasse a calare l’ancora. Peppe perdeva tempo a fissare l’acqua, prima di qua e poi di là. Ma, io penso ancora, il mare non è lo stesso, sia a destra che a sinistra della barca?
«Guarda questa cicatrice sul polso. Una volta, nel punto dove siamo adesso, tirai su una murena».
Era felice ed io con lui. I silenzi della sera non mettevano paura, anzi. Quella pace aiutava a riconoscermi nei miei anni. Ero un povero ragazzo ricco di vita. Poche lire, niente abiti griffati, paghetta zero e tanti sogni da fare, disfare e rifare.
«Non c’è niente. Questo mare oggi è una vasca da bagno!» dissi a Peppe.
«Niente fretta, Auré! Aspetta…» mi rispose a bassa voce.
Ripetutamente tirai su i miei tre ami da quattordici ma… neanche un mazzo di posidonia incontrata per errore. Lui, intanto, nel ventre della barca rovesciava donzelle e saraghi, tordi e gronchi, diletto e pacatezza. Finalmente il filo vibrò tra le mie dita come corda di chitarra rock:
«Deve essere grosso, Peppe!»
«Portalo su piano piano. Calma e gesso, Aure’!».
***
Maledetto cassonetto! Ora, davanti al mio caffè fumante, cerco disperatamente di inventarmelo, quel pesce. Passa un minuto e le guance si beano come ogni mattina del passaggio fluido del bilama. La cravatta multicolor sollecita il solito nodo perfetto. Il PC è da spegnere da ieri sera. Corro incontro all’ennesima giornata del lavoro redditizio, dei pretesti per consumare la vita, dei nuovi lampi del progresso. Bello sarà il mio futuro ma solo se staccherò il presente. Magnifico il mio passato e necessaria la mia gioventù, ma solo se la nostalgia arriva sonnambula e mai malinconia opprimente.
Il sogno di stanotte - l’avrò fatto all'alba di questo giorno nuovo - canta l’inno del normale. L’ordinario senso della vita oggi è ingarbugliato com’era ieri il filo della mia lenza, allorquando l’ammassavo sul fianco della Nina.
Questo mare oggi inquieto, a tratti così apparentemente accogliente, ricompone nella mia mente, a lenti fotogrammi, il ricordo di attimi indelebili e strazianti.
Quel pomeriggio di fine estate, tra ombrelloni chiusi e folate di libeccio, proprio di fronte alla struttura dello stabilimento balneare e poco oltre la battigia, giaceva il corpo inerme di un uomo di giovane età... si tentò l'impossibile per rinvenire quel soffio di vita che nessuno sarebbe stato in grado di restituirgli . I minuti passavano, e sembravano ore, pesavano come macigni.
A pochi passi, a lato delle cabine e inginocchiati sul selciato, due bambini ed una giovane madre pregavano ostinatamente perchè avvenisse il miracolo.
Le mani giunte, protese verso il cielo, l'intercalare all'unisono delle loro voci tremanti, invocavano quel Dio che non c'era...
Il mare ricorda, io lo so, io riconosco la sua lacerante inquietudine, che porta con sé rabbia e rassegnazione, la visione innocente dell'ineluttabile